Come il peso dell’acqua

Una riflessione per imparare a pensare ai migranti non come alterità culturale, come minaccia, ma come parte – in modo speculare - anche di noi stessi

Andato in onda su Rai Tre il 3 ottobre 2014 – nell’anniversario della terribile strage di Lamepdusa del 2013, nella quale persero la vita centinaia di migranti - Come il peso dell’acqua racconta, tra documentario e teatro, il dramma dell’emigrazione, visto con gli occhi di chi ha messo a rischio la propria vita tra il deserto e il mare in cerca di un futuro diverso, in fuga dalla povertà, da atroci violenze e sanguinosi conflitti. Senza dimenticare – e su questo è importante porre l’accento - di fare luce sull’ambiguità dell’atteggiamento di un Occidente spesso cinico, ipocrita, indifferente.

Tutto l’articolato percorso cinematografico di Andrea Segre , regista di questa sorta di reportage, si compie del resto sotto il segno di una serrata indagine sociale sugli argomenti più urgenti della nostra contemporaneità: l’immigrazione, l’integrazione, le ingiustificate (eterne, immutabili?) differenze economico-sociali e le problematiche che ne conseguono. Tanto l’immigrazione dall’Africa ( Come un uomo sulla terra , 2008; Il sangue verde , 2010; Mare chiuso , 2012), quanto la recente crisi economica in Grecia ( Indebito , 2013, che racconta il rebetiko con il cantautore Vinicio Capossela), come pure le periferie romane ( Magari le cose cambiano , 2009) fanno parte del vasto panorama documentaristico del regista veneto, che anche nei suoi due film di finzione ( Io sono Li , 2011; La prima neve , 2013) ha incentrato il discorso sulle tematiche dell’integrazione culturale.

In Come il peso dell’acqua vengono intervistate tre donne con alle spalle, ancora una volta, storie tragiche di emigrazione: Gladys, partita dal Ghana nel 2004, Semhar, che ha lasciato l’Eritrea nel 2009, e Nasreen, siriana, anche lei partita per l’Europa, nel 2013. Quello evocato dalle tre donne che raccontano il loro disperato viaggio è un panorama infernale: fame, sete, stupri, violenze. Persone (tra cui donne e bambini) letteralmente lanciate da una barca all’altra come oggetti, trattate come animali. E, soprattutto, la costante paura di morire o di veder morire i propri figli.

Alle loro testimonianze fanno da controcanto gli interventi di Giuseppe Battiston e Marco Paolini: il primo ipotizza e racconta una vicenda analoga a quella delle tre donne intervistate, al posto delle quali troviamo però una ragazza italiana; il secondo traccia un chiaro quadro geopolitico della situazione. Sebbene a tratti didattici, questi passaggi hanno il doppio merito di reinserire l’Italia nella sua storia di emigrazione (storia che quando più ci fa comodo e con troppa facilità mettiamo da parte e dimentichiamo) e di dare corpo a una visione delle cose non solo emotiva ed empatica, ma anche lucida, strutturata e concreta in senso socio-politico.

Questo piccolo lavoro televisivo di Segre (realizzato, oltre che con Battiston e Paolini, anche con Stefano Liberti) è un tassello importante di una più grande riflessione (alla quale, come già detto, il regista ha dedicato finora pressoché interamente il suo cinema), un invito alla comprensione e alla tolleranza, necessari nella contemporanea dimensione multietnica, realtà ormai consolidata rispetto alla quale non ha alcun senso – e non è più possibile - reagire con cieca paura e assurdo razzismo. Come il peso dell’acqua , per il suo valore anche educativo e per la semplicità del linguaggio che utilizza – considerando queste caratteristiche in senso tutto positivo – andrebbe diffuso non solo in televisione, ma soprattutto nelle scuole. Per imparare e per insegnare a pensare ai migranti non come alterità culturale, come minaccia, ma come parte – in modo speculare - anche di noi stessi. Ricordando, come suggerisce questo documentario, le parole di Giovanni Pascoli in Italy, che degli emigranti (in quel caso appunto italiani) scriveva che “hanno un po’ piu? fardello che le rondini, e meno hanno di fede”.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 11/01/2015

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