Cold in July

L'universo cinico e grottesco di Lansdale incontra il cinema di Jim Mickle in un idillio di sangue e morte nel Texas reazionario di fine anni Ottanta

Cold in July è il regno del contrasto, dell’anomalo, dell’imprevedibile. Come il suo titolo, è un oggetto contraddittorio e assurdo il film che Jim Mickle adatta dall’omonimo romanzo di Joe R. Lansdale, beffardo e stravolto viaggio di formazione di un un padre di famiglia alle prese con un mondo di morte e prevaricazione ben più grande di lui.

Mettere in scena un romanzo di Lansdale – lo sanno bene i pochi, pochissimi sventurati che in passato hanno tentato – non è certo impresa facile. Quando poi da adattare per il grande schermo è un’opera tanto anomala e discontinua, ancora meno. Ci voleva un regista semisconosciuto, almeno al grande pubblico, ai non appassionati di certo horror indipendente e artigianale, per convertire in immagini in movimento un universo tanto assurdo quanto emblematico della società statunitense.

D’altronde solo un regista dalla comprovata dimestichezza coi generi avrebbe potuto fare di un romanzo che innalzava la discontinuità narrativa, la contaminazione stilistica e prospettica, gli improvvisi cambi tematici e di registro a suo maggiore punto di forza, qualcosa di visivamente unico e debordante. Cold in July, agghiacciante e nera commedia umana all’interno di un Texas omicida e corrotto, non è solo un film ma molti film insieme, tanti quanti le sue svolte repentine e imprevedibili, molteplici come i volti, assurdi e stranianti, dei suoi personaggi costantemente sopra le righe.

Con un tocco deciso e un’estrema consapevolezza formale, Mickle costruisce un saggio su(i) generi(s) e sottogeneri passando dal dramma famigliare al thriller persecutorio, dalla detective story al revenge movie, in un noir che strizza l’occhio al western per degenerare, infine, nello splatter e nel grottesco. Un affresco pulp iperreale, dai colori forti, netti, rigoroso e inesorabile come la sua storia di falsa vendetta, assurda rivalsa e disperata giustizia.

Quello che ne esce è un film spiazzante, disorientante, poco “inquadrabile” eppure così definito, ben delimitato, paradossalmente coerente, come l’immagine di un quadro che rivela i suoi confini, la sua cornice, la sua irrealtà, mentre la macchina da presa si allarga su un mondo dove l’uomo mangia l’uomo in un abbrutimento che non ha neppure più bisogno di giustificazione.

Il Texas di Cold in July diviene allora l’immagine stessa del Male dietro la facciata pulita e rassicurante della tranquilla vita borghese, fotografata e incorniciata in tutta la sua latente furia omicida nella degenerazione banale e definitiva dell’american way of life.

Immagine rimossa.

L’iperrealtà grottesca e nichilista di Lansdale si riversa nella regia e nell’immaginario di Mickle senza fatica dando vita a un mondo che, se non è finito, è sul punto di esserlo e se non è popolato da zombie o vampiri poco importa, perché la concreta ottusità umana che ne traspare fa molta più paura.

L’apocalisse è alle porte, oppure è già avvenuta e siamo stati troppo ciechi per rendercene conto mentre un male quotidiano e banale divorava qualsiasi residuo etico e morale lasciando il posto a una bestialità senza speranza. O quasi. Perché anche il mondo alla deriva di Cold in July ha bisogno di (anti)eroi e li trova in un trio assurdo, degenerato e disastrato ma determinato a fare giustizia, fino alla fine. Ecco allora, ad affiancarsi al disorientato (ma, via via, sempre più determinato) corniciaio di Michael “Dexter” C. Hall, un vecchio ex galeotto alla ricerca del figlio (un sempre bravissimo Sam Shepard) e un bizzarro e appariscente investigatore privato/allevatore di maiali dalle fattezze di un perfetto spaccone Don Johnson.

Lontano da omaggi ludici e citazionisti, il film di Mickle è un tuffo a capofitto in un passato che pare avere la consistenza di un incubo analogico fatto di vhs e film snuff, di reazionarismo reaganiano e b-movies, in un revival anni Ottanta dalle tinte forti e perturbanti che non lascia scampo. Cold in July è allora la discesa in un inferno di bruttura e desolazione, affresco al neon di un Texas dove l’ordinario si tramuta in straordinario con la velocità di un proiettile, annullando ogni confine, ogni stentata e posticcia cornice che inquadri il bene tenendo fuori il male. Una commedia nera dell’eccesso, sovversiva e anarcoide, eppure tanto rigorosa nel gestire la sua follia, nello scandagliare spazi interni ed esterni, nell’alternare sapientemente la molteplicità dei suoi punti di vista, da tornare circolarmente sui propri passi, in un percorso emotivo che ha l’amaro gusto del racconto formativo e il desolante fascino dell’affresco allegorico.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 06/06/2015

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