Clown

Il pagliaccio assassino torna sul grande schermo in un horror che con semplicità e consapevolezza tenta di riscriverne il mito

Quasi un trentennio è passato da quando Stephen King – complice una realtà ben più spaventosa della fantasia (vedi, alla voce serial killer, John Wayne Gacy) – scandagliava le paure più profonde dell’infanzia pervertendo l’immagine goffa e bonaria del clown fino a elevarla a male famelico e assoluto. La creatura emersa dalle pagine del suo monumentale It apriva la strada a un immaginario potentissimo pronto a radicarsi, con insospettabile e prolifica rapidità, nelle nostre rappresentazioni collettive. Anche sul grande schermo memorabili omaggi, rivisitazioni, degenerazioni (dal Captain Spaulding di Rob Zombie agli incubi circensi di de la Iglesia, dai ridicoli clown assassini dallo spazio profondo al Joker burtoniano di Jack Nicholson, passando persino per il recente Inside Out della Pixar) si sono succeduti negli anni pur tenendo, il più delle volte, questa figura lontana dal protagonismo assoluto, relegata in un angolo del nostro subconscio, pronta, nel caso, a balzare fuori come un pupazzo a molla impazzito.

Ci voleva l’intuizione di un regista sconosciuto per resuscitare, in maniera finalmente consapevole, questo immaginario corrotto e abusato vestendolo di inedite sfumature e ponendolo, così, al centro di un nuovo mito fondativo.

É sulla contaminazione che gioca Clown, opera prima di Jon Watts, piccolo horror senza pretese che ha però il pregio di partire da una figura tanto codificata e riconoscibile per poi arricchirla, renderla qualcosa di totalmente inedito pur senza uscire dalle più consolidate logiche di genere. Ecco allora che nel dramma di un padre di famiglia che, trovato per caso un vecchio costume da clown, decide di vestirne i panni per l’imminente festa di compleanno del figlioletto solo per poi scoprire di avere indosso niente meno che la pelle di un antico demone, pronta a fondersi con lui e a mutarlo in un famelico mostro divoratore di bambini, c’è la riappropriazione e, insieme, tutta la semplicità iconografico-espressiva di un intero universo orrorifico, scomposto e ricombinato in nuove, originali forme.

Immagine rimossa.

In parte classica storia di possessione, in parte fiaba nera contemporanea, Clown si muove attraverso differenti suggestioni e registri, dal grottesco esasperato (con un Peter Sormare più che mai sopra le righe) allo splatter più puro, fino a sconfinare pericolosamente nell’inquietudine disturbante del body horror. Sono allora le disgustose e sofferte mutazioni dal sapore cronenberghiano, amalgamate a derive demoniache più o meno scontate, a decretare l’originalità sostanziale di un prodotto di genere come è il film di Watts, capace di distinguersi per un orrore tanto immediato quanto feroce, col piglio e la libertà di un cinema indipendente che non ha paura né di osare né di provocare (giustificando l’evidente zampino di Eli Roth in produzione). A suo agio nelle vesti di un genere che lo alimenta e, insieme, gli garantisce il massimo movimento, la massima libertà espressiva (la sequenza della caccia ai bambini, tra scivoli, palline e litri di sangue, è tutt’altro che banale), Clown non teme ridondanze o stereotipi, ma anzi se ne serve per raccontare una storia certamente prevedibile, ovviamente lontana da qualsiasi drastica rottura ma capace, nella sua semplicità, di conservare la giusta dose di sorpresa e meraviglia. E se l’operazione di resuscitare una figura tanto presente nella nostra cultura popolare poteva (e può) lasciare perplessi, di sicuro perplessi non lascia il buon risultato ottenuto da Watts.

Pennywise e compagni possono tirare un sospiro di sollievo, i clown sanno ancora fare paura.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 01/10/2015

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