Il Corriere - The Mule

di Clint Eastwood

L'ultima, essenziale incarnazione della morale eastwoodiana.

ILCORRIERE

Di fronte alle immagini essenziali di Il corriere - The Mule si prova un certo sentimento crepuscolare. Si guarda indietro verso i western, l'immaginario dell'America che fu, il profondo senso etico del più politico dei cineasti americani in attività. Clint Eastwood, il grande vecchio che non cade mai, quello che apre il suo cinema alle derive sperimentali e incomprese di Ore 15.17 - Attacco al treno e poi torna a recitare a quasi novant'anni. 


In fondo i suoi personaggi continuano a rispondere ossessivamente a una domanda: cosa fa di noi un essere umano? Qual è la scintilla che ci rende uomini? Tutta la sua filmografia insegue la medesima risposta: la possibilità di scegliere al di fuori di qualsiasi assetto costituito, assumendosi tutte le responsabilità che comporta l'azione. Essere il proprio destino per un preciso, necessario senso etico, senza mezzi termini o mediazioni. Quella di Clint è probabilmente l'ultima vera figura anarchica dell'immaginario americano, che promuove lo spirito di un cinema autenticamente conflittuale, selvaggio e mai risolutivo: in un mondo dove l'atto è l'origine e l'eclissi di ogni cosa, Clint si assume il peso dell'azione. Imbocca una nuova via, modifica il senso di marcia. In quel momento sospeso si risveglia l'idea fissa che, assopita, abita i suoi eroi. La dimensione che viene a crearsi è quella del tempo che resta, protratto non davanti ma dentro i personaggi, verso la loro identità più profonda.  


Parla proprio di questo Il corriere: Earl Stone per tutta la vita ha anteposto il lavoro agli affetti. Pessimo marito, pessimo padre, individualista convinto che ha lasciato la famiglia scivolare via. Col peso degli anni e senza più lavoro, non rimangono che i rimpianti che diventano giorno dopo giorno fardelli insostenibili. La casa pignorata, le delusioni e i rancori, resta solo quel vecchio, inseparabile furgone, unico compagno di viaggio e di mille avventure. Guidare e lasciarsi andare, percorrendo le strade americane alla ricerca di una continuità che riunisca una costellazione di frammenti (in fondo Una storia vera di David Lynch faceva la stessa cosa).

Il dolore appannato dalla strada, la leggerezza di una canzone di Dean Martin, l'orizzonte sempre a-venire: il viaggio delinea un'altra velocità, un altro modo di stare al mondo. Senza troppi indugi, Earl accetta la proposta di un giovane messicano e diventa il corriere per un cartello della droga. Con i soldi guadagnati tenta di ricostruire il mondo perduto che lo circonda: paga il matrimonio della nipote, salva il circolo di reduci cui apparteneva, tenta in tutti i modi di riacquistare il tempo, di guarirlo, consapevole di non poter cancellare le colpe o silenziare i rimorsi. Ma si può ricominciare, anche a ottant'anni suonati: a patto di seguire velocità diverse dalla realtà circostante, di prendersi i propri tempi, strade e geografie (che restituiscano un senso di coesione, di identificazione con la terra cui si appartiene); di interrompere una consegna per aiutare una coppia con la macchina ferma sul ciglio della strada, di spassarsela con un paio di ragazze in un motel, di vivere al proprio ritmo come ai tempi delle ballate dei cowboy solitari.  

Clint allestisce una straziante opera di rimpianti e parole mai dette con quel tocco di miracolosa leggerezza che appartiene solo ai grandi maestri. C'è lo humour scanzonato e politicamente scorretto dove il grande vecchio, sfacciato e un po' piacione, osserva un mondo che va troppo in fretta. Se la prende con la rete ("Internet? A chi serve?"), fatica a utilizzare un cellulare ma almeno sa come cambiare una ruota. Spudorato, si rifugia nell'esperienza alimentando quel sesto senso che gli salva la vita. Il volto ruvido di chi non ha più nulla da perdere - se non l'amore della sua vita che l'orgoglio, l'arrivismo e la vanagloria hanno oscurato. La sequenza finale con la moglie è una di quelle cose che mettono i brividi solo a pensarci.


Se un mese fa, Old Man & The Gun segnava l'addio alle scene dell'altro grande vecchio, Robert Redford, con un film gentile e pulito che era un preciso omaggio alla stella, Il corriere è un'opera selvaggia alla Clint, che non conosce fine ma può solo continuare. I parenti più stretti, in questo senso, sono Gran Torino e Million Dollar Baby. Se l'intero universo muore intorno a lui, Clint non smette di viaggiare. Sa bene che il mondo non è un paese per vecchi ma lui imperterrito coltiva il suo orto - che sia nel giardino di una casa o di una prigione non fa differenza. Del resto ama i fiori che durano un solo giorno, riconosce la bellezza in tutto ciò che muore. 
A inseguirlo il poliziotto Bradley Cooper, alter-ego, doppio del protagonista, come nella migliore tradizione guardia e ladri. La sequenza al bar che li vede entrambi in scena è la sintesi perfetta della morale eastwoodiana: l'icona, tenacemente attaccata alla vita, nell'altro riconosce se stesso. Sembra quasi la scena di un western (ma cosa, nel cinema di Eastwood, non lo è?). Non importa da che parte stia, l'importante è che abbia impressa negli occhi la medesima immagine, lo stesso mirabolante sogno - quella del mondo perfetto da proteggere da tutte le insidie e i falsi dei.

Quella per cui vale la pena perfino un po' morire...almeno fino alla prossima cavalcata.
 

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 07/02/2019
USA 2018
Durata: 116 minuti

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