Café Society

Primo film in digitale di Allen, Café Society è una nuova, dolceamara riflessione sulla nostalgia che domina la vita

Cos’è la nostalgia e quanto conta questo sentimento nella produzione di storie al cinema e in televisione?

Il passato nel cinema è il luogo della memoria e dei ricordi ma anche quello dei sogni, dei desideri d’infanzia che per qualche attimo sono stati davvero realizzabili, in cui è stato possibile credere, anche solo per una notte, sotto le coperte prima di addormentarsi. Proiezioni mentali dal fascino innegabile per chiunque, come dimostra ad esempio il recente successo di Stranger Things, che è diventata uno dei fenomeni culturali più rilevanti dell’anno anche per il dialogo che i due autori hanno messo in piedi tra il passato dell’ambientazione e un immaginario cinematografico al quale molti spettatori si sono sentiti di appartenere.

Woody Allen non è nuovo a questo tipo di operazioni: Midnight in Paris - film che gli è valso l’Oscar per la migliore sceneggiatura nel 2014 e che dipingeva ad ampie pennellate la Parigi degli anni Venti – ragionava proprio sul concetto di nostalgia e resuscitava un contesto geografico, culturale, sociale che oggi possiamo solo immaginare in modo sognante e appunto nostalgico, consci che quella festa mobile così come è stata non tornerà più.

Con Café Society Allen torna ad un discorso per certi versi molto simile, volto a lavorare sul passato non in maniera mimetica ma sottolineando ciò che dei nostri ricordi e soprattutto dei nostri desideri riemerge in superficie a proposito di quell’America degli anni Trenta in cui tutto appariva possibile, ma dietro la cui epidermide dorata si nascondevano contraddizioni tutt’altro che lievi.

In tanti, forse troppi, hanno dato artisticamente per morto Woody Allen. Il prossimo primo dicembre il regista compirà ottantuno anni e di lui si è detto spesso che in questa fase della carriera la qualità delle sue opere è scesa a causa di una prolificità esagerata, tacciando questa caratteristica come il sintomo di una presunta senilità.

Fermo restando che per un autore con alle spalle una carriera capace di coprire sei decadi, e di realizzare tra gli anni Settanta e gli Ottanta opere che hanno marchiato a fuoco la storia del cinema e l’immaginario collettivo, è assolutamente normale realizzare opere di qualità variabile, la questione è come minimo mal posta, soprattutto per quanto riguarda la quantità di opere realizzate. Basta conoscere il cinema di Allen per capire che questa prolificità non è affatto una caratteristica recente, bensì rappresenta da sempre il suo metodo di lavoro, lo stesso modus operandi del Woody Allen tanto amato dagli attuali detrattori, che anche a quei tempi non saltava mai un anno senza fare un film. Dal 1982 ad oggi la “regola” del film all’anno è stata rispettata in modo scientifico, con trentasei film in altrettanti anni, ma questo non gli ha certo impedito di regalarci capolavori come Hannah e le sue sorelle, Un’altra donna o Crimini e misfatti.

Café Society è la prima esperienza dell’autore con il digitale e vede Vittorio Storaro nel ruolo di direttore della fotografia, su cui ogni aggettivo sarebbe superfluo. Detta così, siamo già a metà dell’opera. A dare corpo al racconto c’è un trio di attori perfetto: Steve Carrell (che ci si chiede come mai sia solo al primo film con Allen), Jesse Eisenberg (alter ego perfetto dell’autore) e Kristen Stewart (nuova, incantevole musa). Per sé stesso, Allen riserva il ruolo di narratore che racconta la storia di Bobby Dorfman, giovane newyorkese di famiglia ebraica, più piccolo di tre fratelli, di cui la sorella maggiore impegnata come insegnante e il fratello Ben che con altalenante successo cerca di affermarsi come gangster locale. Non avendo alcuna voglia di inserirsi nella gioielleria del padre, Bobby decide di dare una svolta radicale alla sua vita trasferendosi a Hollywood nella speranza di lavorare per Phil, fratello della madre e agente di molte delle star della Città degli Angeli. Lì conoscerà Vonnie e la sua vita non sarà più la stessa.

Café Society è un film sull’infelicità e sul compromesso, sui bivi della vita ai quali reagiamo scegliendo quasi volontariamente l’alternativa sbagliata, la meno voluta, per poi cullarci nel pentimento e nell’impossibilità di tornare davvero indietro. Un racconto in cui ad ogni errore ne segue uno ancora più irreparabile, dove la commedia degli equivoci è anche il catalizzatore di rapporti di coppia disfunzionali, dominati da punti di vista narcisisti, poco inclini all’ascolto dell’altro e che finiscono tutti in tragedia (o quasi), disgregati dall’assenza totale di comunicazione.

Storaro fotografa Los Angeles e New York come solo lui sa fare, scegliendo per la Grande Mela una tonalità fredda, glaciale, perfettamente incline a sottolineare la povertà del contesto e la struggente malinconia della metropoli americana, non dimenticando di mettere a fuoco ogni minimo dettaglio sulla scena con riprese in profondità di campo che danno prova della ricchezza di idee dell’autore; la California, viceversa, è prevedibilmente calda, vibrante, dominata dai rossi e dagli arancioni che mettono in luce ogni particolare dei soggetti rappresentati e danno prova delle infinite potenzialità del digitale. È una luce unica quella di Storaro, capace di giocare con le fonti di illuminazione mettendo in evidenza le loro specifiche peculiarità, come dimostra nella scena della cena (mancata): inizialmente le candele sono solo un contorno irrilevante sepolto tra le luci artificiali dell’appartamento, ma quando queste ultime si spengono rimangono le sole candele a dare anima alla sequenza, passando da semplice elemento d’arredo a vere e proprie co-protagoniste, con la loro luce incredibilmente pastosa, materica, che fa dei corpi in scena prima delle sagome e poi dei fantasmi sempre più tridimensionali.

Dal punto di vista della regia Allen dà lezioni di steadycam cavalcando gli interni con la consueta sinuosità, escludendo quasi totalmente il campo e controcampo a favore di una macchina mobile sempre e comunque accanto all’azione. L’autore ci accompagna dentro le vite di questi meravigliosi personaggi, tutti pieni di dubbi e paralizzati dall’incapacità di saper scegliere davvero, pietrificati dalla responsabilità di aver compiuto la scelta sbagliata.

Phil ama realmente Vonnie, ma la comodità del matrimonio gli sottrae il coraggio di porgli fine definitivamente, facendo emergere la dipendenza degli uomini dell’epoca per le donne che si occupavano di loro al cento percento. Vonnie, dal canto suo, vede in Phil il viatico per un salto di classe sociale – a cui si aggiunge il sincero sentimento verso una persona che la riempie di attenzioni, indubbiamente affascinante e che ha tanto da insegnarle – ma Bobby si insedia a piccoli passi dentro il suo cuore, gettandola in una crisi che non riuscirà mai davvero ad affrontare vis-à-vis. In ultimo troviamo Bobby, giovane alle prime armi, impacciato e ansioso come il suo modello di riferimento (il giovane Woody Allen), che arriva in California con il cuore pieno di speranza e dove riesce finalmente a trovare lavoro, ma nel frattempo si innamora perdutamente di Vonnie; sarà il cuore infranto a farlo tornare a casa, con in mano i cocci rotti di un’ideale amoroso mai davvero compiuto e una ferita (forse) insanabile.

C’è una tristezza trasversale che progressivamente prende il sopravvento e invade i tre protagonisti, per i quali non serve a nulla provare a “tirare a campare” e cercare di accontentarsi di una vita tutto sommato più che accettabile nella speranza di rimuovere il malessere di una volta.

Non c’è possibilità di mascherare l’infelicità con la recitazione o con una vita affogata nel lusso, arriverà sempre un lapsus che riaprirà la ferita – mai davvero rimarginata – mandando in tilt il faticoso equilibrio che ci si era persuasi di aver conquistato.

Se la scrittura è spietata nel gettare i personaggi in un abisso di infelicità, la regia di Allen si spinge ancora più oltre, arrivando come un falco a smascherare gli autoinganni dei personaggi. Ancora una volta è l’uso del linguaggio cinematografico a fare dell’autore qualcosa di più di un grande scrittore, in particolare per quanto riguarda il montaggio e le transizioni sintagmatiche. Oltre ad utilizzare transizioni classiche oggi desuete come le tendine o gli iridi (come quella, stupenda, in apertura) che sono anche splendidi omaggi al cinema dell’età dell’oro, Allen piazza due cruciali dissolvenze incrociate che arrivano violente come macigni a dare senso al racconto, una a spaccare il film e l’altra in chiusura.

In entrambi i casi si parte dal volto di Kristen Stewart carico di luce inquadrato in primo piano. Nella prima il triste viso della giovane protagonista viene squarciato e incrociato con il ponte di Brooklyn e una Manhattan alla quale Bobby fa ritorno con il cuore a pezzi. Nella seconda, che domina un finale di grande potenza, a incrociarsi sono il volto in primo piano di Vonnie e quello di Bobby ripreso di profilo, due personaggi che arrivano al termine del film indubbiamente realizzati dal punto di vista lavorativo, ma dominati da un’infelicità abissale sottolineata dalla transizione che li collega, e dal nero finale in cui la sequenza e l’intero film si dissolvono.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 04/10/2016

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