Austerlitz

Tra Sebald e Spielberg, il film di Loznitsa sui turisti di Sachenhausen seduce e scandalizza.

Austerlitz è il nome di un villaggio della Moravia, divenuto celebre per la vittoria di Napoleone nella battaglia «dei tre imperatori», combattuta nel dicembre del 1805 contro un esercito congiunto di russi e austriaci . Ad Austerlitz è ispirato il nome di una nota stazione metropolitana di Parigi, la Gare d’Austerlitz, che celebra proprio quella battaglia. Austerlitz è il protagonista che dà il nome al quarto e ultimo romanzo dello scrittore tedesco W. F. Sebald (2001), che racconta la storia di un professore di storia dell’architettura, interessato a studiare tutti quei luoghi pubblici carichi di significati visionari, simbolici e memoriali, come le stazioni, le prigioni, le caserme, oggetto di peregrinazioni erudite ottocentesche . Austerlitz, da oggi, è anche il titolo dell’ultimo incredibile documentario del regista ucraino (ma di origini bielorusse) Sergei Loznitsa, presentato fuori concorso a Venezia 73, che nel titolo richiama, più che la vittoria di Napoleone, il racconto di Sebald.

L’Austerlitz di Sebald non conosce le sue origini. Così, decide di intraprendere un viaggio nella sua memoria, sulle tracce della propria identità. Attraverso la visita di luoghi evocativi e la visione di oggetti, fotografie e filmati, scoprirà presto di essere arrivato a Londra, da piccolo, durante la guerra, mentre i suoi genitori venivano deportati da un convoglio verso lo sterminio. Dopo aver visto frammenti del famoso video di propaganda, girato dai nazisti nel ghetto “modello” di Theresienstadt, osserva come le figure imprigionate in quelle immagini avessero «perso la loro nitidezza e, soprattutto nelle scene girate fuori alla chiara luce del giorno, risultavano confuse ai margini, come i contorni della mano nelle fotografie fluidali e nelle elettrografie realizzate da Louis Darget verso la fine del secolo», impregnate «di un bianco luminoso». Sembra quasi di poter leggere tra queste righe, ma con quindici anni di anticipo, l’approccio estetico che muove Sergei Loznitsa dalla prima all’ultima devastante inquadratura.

L’Austerlitz di Loznitsa ci porta dentro il memoriale di Sachenhausen, ex-Lager a pochi chilometri da Berlino. Non il campo più importante dell’universo concentrazionario nazista, ma certamente evocativo per varie ragioni. Innanzitutto la forma, un triangolo equilatero, all’interno del quale tutti gli edifici sono situati su una perpendicolare in modo simmetrico. Con l’idea di decostruire la geometria nazista, Loznitsa colloca nel campo una macchina da presa, sempre fissa, che da varie angolazioni scavalla con consuetudine l’asse con il soggetto rappresentato. L’occhio, però, non è mai diretto ai resti del campo o ai monumenti, già costruiti pochi anni dopo la liberazione dello stesso, avvenuta nell’aprile del 1945 per mano dell’Armata Rossa. Il regista ucraino si dimostra, di contro, interessato esclusivamente a quel turismo di massa che, ormai da anni, riempie i principali luoghi della memoria dello sterminio nazista.

Loznitsa filma asetticamente, in 33 inquadrature fisse e in bianco e nero, i turisti della memoria provenienti da tutto il mondo, come fossero i deportati raccontati dall’Austerlitz di Sebald. Se dalle prime immagini facciamo fatica a collocarci in un contesto, dopo otto minuti ci viene sbattuto in faccia un cancello, con la solita scritta «Arbeit Macht Frei», mostrato in campo e controcampo, varcato da decine di persone con audioguide all’orecchio, macchine fotografiche al collo, GoPro e smartphone di ultima generazione in mano, oppure collocati all’estremità dei sempre più diffusi selfie stick, pronti a scattare immagini che saranno pubblicate sui Instagram, magari con hashtag come #sachsenhausen, #zyklonb o #instacaust. Mentre il Lager a settant’anni di distanza si riempie di nuovo, dopo appena diciotto minuti e tre inquadrature la sala cinematografica si svuota.

Il regista non muove mai la macchina da presa e non indugia, in nessun caso, sui volti delle persone, alcuni visibilmente scossi (pochi), altri distesi come fossero in visita a Disneyland. Si ferma in un angolo del campo a osservare, aspettando lunghissimi minuti che qualcuno passi di lì. Raramente entra dentro ciò che rimane o è stato ricostruito delle strutture del Lager, visitate in coda dai turisti: li attende all’uscita, inquadrando i loro movimenti attraverso porte e finestre. Li segue, poi, all’esterno, mentre passano accanto o (quasi) attraverso la telecamera, in gruppi o singolarmente. Le poche informazioni storiche sul campo ci vengono fornite indirettamente dalla voce delle guide, che raccontano ai turisti, in tutte le lingue possibili, cosa è successo entro quei confini. La Babilonia di oggi è la stessa di ieri, e la sottile analogia tra i turisti del presente (che riempiono un campo già svuotato, settant’anni fa, dalla morte di massa) e i deportati del passato (solo a Sachesnhausen sono morti in 30.000) ci disturba e scandalizza. Come ci scandalizzano le centinaia di recensioni su Tripadvisor dei memoriali della Shoah, situati in ciò che resta dei campi di concentramento e sterminio di tutta Europa, dove gli stessi utenti finiscono per trasformare il Lager in un parco a tema o un ristorante, da valutare con un voto da uno a cinque pallini. Quasi come scrivere una recensione su Auschwitz, dopo Auschwitz, fosse un atto di barbarie.

L’utilizzo del bianco e nero fa il resto, storicizzando le immagini del presente e richiamando, da un lato, l’archivio dei più noti repertori della Shoah, tradizionalmente filmata in bianco e nero, mentre dall’altro quel paradigma dell’Olocausto cinematografico contemporaneo che è Schindler’s List. Così come Spielberg, anche Loznitsa decide di non varcare la soglia della camera a gas. Rimane fuori, un po’ per ossequio e un po’ per voyeurismo, a osservarla dal buco della serratura (in questo caso una porta aperta sull’esterno). Qui dentro intravediamo le sagome dei turisti in visita, accalcati l’uno sull’altro, smaniosi di fissare sulle loro fotocamere l’autenticità perduta di un’immagine mancante, direbbe Rithy Panh. Posti di fronte all’impossibilità di distogliere lo sguardo, anche noi cerchiamo di scrutare qualcosa da fuori, ma non riusciamo a vedere niente. Ciò che ci è dato osservare, così come nel resto della “visita”, sono i turisti che fotografano, ma non l’oggetto del loro scatto. Lentamente, in un interminabile viaggio di ritorno, siamo poi ricondotti all’uscita. Dopo circa novanta minuti e trentadue inquadrature fisse, i cancelli del campo si riaprono, in quella che è la sequenza più lunga di tutto il film. I turisti/deportati possono finalmente uscire da dove sono entrati, e noi, dopo averli osservati di nascosto, possiamo fare altrettanto dalla sala cinematografica, travolti come un tornado dal più sconvolgente film del festival.

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 07/09/2016

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