Adieu au langage - Addio al linguaggio

Godard si interroga sullo stato della nostra società nell'epoca del cinema tridimensionale. Cosa si nasconde dietro la superficie del 3D?

Una delle questioni che ha da sempre attraversato la filmografia di Jean-Luc Godard potrebbe essere sintetizzata così: che tipo di relazione si stabilisce tra un’immagine e la società che l’ha prodotta? La recente esplosione del cinema tridimensionale ha spinto Godard a realizzare un film in 3D e a interrogarsi sullo stato della nostra civiltà all’epoca dell’affermazione dell’immagine stereoscopica, immagine che il regista individua, genialmente, nella forma 1,2. Se il cinema nel corso della sua storia è sempre stato 1 (dove uno sta per l’unicità di una sola immagine alla volta, al massimo scomposta, frammentata e scandagliata nel laboratorio del montaggio) con il 3D ci stiamo abituando a vedere contemporaneamente, nello stesso frame, due immagini differenti tra loro: immagine 1 e immagine 2. Un rapporto oppositivo quindi che non può più risolversi in una sintesi (il One Plus One di Godard plus Rolling Stones è ormai lontano) ma che produce una frattura, uno scontro, una problematicità insanabile nelle relazioni. Per pochi, infiniti secondi Godard arriva addirittura a sdoppiare l’immagine tridimensionale, a palesarne la doppiezza, scardinando il principio base del 3D (due macchine da presa, con una distanza di pochi centimetri tra loro, che riprendono lo stesso oggetto) fondendo una dentro l’altra due immagini assolutamente eterogenee tra loro: lo spettatore, per evitare di incrociare lo sguardo, è costretto ad aprire prima un occhio poi l’altro, un’immagine alla volta, un racconto alla volta: l’ipotesi di una sintesi è qui palesemente svelata come un’utopia.

Lo schema 1,2 è presente in tutto Adieu au langage - Addio al linguaggio attraverso le figure di un cane (1) e una coppia (2) che si alternano durante il film, con il cane che attraversa liberamente la natura, mentre l’uomo e la donna ricercano disperatamente una forma di linguaggio comune: attorno a loro una galassia di frammenti visivi e sonori, materiali, come sempre in Godard, fatti scontrare tra di loro nel tentativo di farne nascere un significato, significato che qui si crea a partire dalla natura stessa del conflitto tra immagini, non più nel risultato terzo di questo scontro.

Tutto in Adieu Au Langage è contrapposizione violenta e inconciliabile (natura e metafora, uomo e donna, singolo e Stato, omicidio e democrazia), un puzzle vertiginoso nel quale ci si interroga se sia possibile “produrre un concetto d’Africa?” e si sostiene che “la sinistra e la destra si sono invertite ma non il sopra e il sotto”. E’ consequenziale che se, come afferma il film, il confronto inventa il linguaggio, allora oggi che con il 3D non può più esserci confronto, ha perfettamente senso dire addio al linguaggio.

Jean-Luc Godard, che grazie a un uso estremo della convergenza oculare lascia emergere dallo schermo oggetti in primissimo piano come a palesare la tridimensionalità della sua immagine, vede nel 3D il naturale prodotto di una civiltà irrisolvibile, dove ideologie, appartenenze politiche, relazioni sociali e culturali sembrano destinate a scontrarsi all’infinito senza pervenire a nulla: una civiltà sconvolta e impazzita che può arrivare al paradosso di chiedersi se l’omicidio possa diventare uno strumento lecito per combattere la disoccupazione.

Il cinema furiosamente moderno di Godard ci mostra tutta la sua carica produttiva continuando a vedere il cinema come luogo privilegiato dove giocare con materiali di ogni tipo. Filmati di repertorio, citazioni letterarie e musicali, film classici, riprese amatoriali, immagini trovate, compongono l’ennesimo Frankenstein filmico (evocato nel finale), l’ennesima sfida alla capacità del cinema di significare, lasciando allo spettatore la possibilità di giocare con il film secondo i propri strumenti, di ricostruirsi mentalmente una traccia capace di legare assieme la babele di schegge impazzite che compongono Adieu Au Langage.

Con il pubblico e la critica ancora una volta divisi tra rifiuti aprioristici e generiche esaltazioni del metodo Godard, Adieu Au Langage ci sembra l’ennesimo tassello di un percorso straordinario, di un’indagine sulla possibilità di produzione di senso in epoca contemporanea, indagine capace di trarre nuova linfa dal cinema tridimensionale. E ancora una volta il cinema-limite di Godard se da una parte racconta come il cinema continui a morire – una morte iniziata con Fino all’ultimo respiro nel 1960 – dall’altra si propone come una delle riflessioni teoricamente più lucide e teoricamente stimolanti su cosa sia il cinema oggi. Alla fine la coppia (2) produrrà un 1, inevitabilmente un cane (1)/bambino: quasi a voler provocatoriamente ribadire, come scriveva André Bazin nel 1945, "D’altra parte il cinema è un linguaggio".

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 20/11/2014

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