Victoria

Una dimostrazione muscolare della difficoltà e della bellezza del piano sequenza

Sarebbe impossibile tracciare una geografia esaustiva del piano sequenza nel mappamondo del nuovo cinema decentralizzato contemporaneo. Si potrebbe procedere in maniera orizzontale – nello spazio - muovendosi tra le cinematografie occidentali ed orientali, europee, hollywoodiane, latine, asiatiche, o potremmo procedere verticalmente – nel tempo – da Ophuls a Kubrick, da Van Sant a Tarr a Godard, solo per citarne alcuni. Alla lista si potrebbero aggiungere tranquillamente altre grandi personalità, ma quello che è importate ricordare è che ogni regista è e sarà sempre affascinato dalle possibilità del piano sequenza. Alcuni registi tornerebbero, ad ogni lettura, sempre all’interno della nostra ideale ed utopica classificazione, e queste sarebbero legate alla volontà, nella loro visione, si trascendere il montaggio nell’interezza del film, togliere alla grammatica del cinema la possibilità di racchiudere il tempo nel taglio, l’analessi o la prolessi alla narrazione, disinteressarsi della coda lunga della narrazione ed affidarsi per la totalità del mostrato al fluido incanto di un presente filmato. Un qui ed ora in grado di unire le due unità drammatiche di tempo e spazio in un solo long take, tanto rischioso quanto difficile da realizzare, un meccanismo esatto che procede senza un millisecondo di ritardo, in grado di violare (o convogliare) il principio genetico del cinema (il montaggio) ed adattandolo al concetto della visione unica di stampo teatrale, ma di un teatro non frontale, un teatro senza gli atti che lo segmentano: un cinema in un atto unico. Dalla genialità di Hitckcock, nel trascendere l’impossibilità tecnica del mezzo attraverso la sua naturale capacità nell’ideare il trucco in grado di ingannare l’occhio dello spettatore, adottato nel suo falso piano sequenza de Il nodo alla gola composto da dieci piani sequenza; alla bellezza austera di un Sokurov e del suo long take adoperato per Arca Russa. Impossibile non arrivare e considerare anche il nostro cinema contemporaneo e non nominare l’estetica e la fluidità formale assunta da Inarritu in Birdman. Lontano da queste meravigliose esperienze cinematografiche ed artistiche, il cinema riesce comunque a creare delle mete (tecniche o formali) da raggiungere, valicare e superare ponendo sempre un nuovo traguardo da rincorrere, una nuova sfida da completare. Il traguardo raggiunto in Victoria, film tedesco di Sebastian Shipper, dal suo direttore alla fotografia ed operatore, il norvegese Sturla Brandth Grøvlen, ha davvero dell’incredibile. Stiamo parlando di un long take di ben 140 minuti realizzato all’interno di un quartiere di Berlino, tra club sotterranei, strade, palazzi, terrazze, hotel, macchine, sparatorie, fughe e tanto altro ancora: un incredibile sforzo muscolare per solo un uomo, da realizzare senza l’ausilio della tecnica digitale. Una sfida da guinness dei primati pienamente superata. Un eccellente prodigio umano, tecnico e cinematografico.

Immagine rimossa.

Victoria è una giovane ragazza di Madrid, da poco a Berlino, conosce in un club quattro ragazzi tedeschi, si innamora di uno di loro, e in un arco di tempo di due ore e venti, dalle quattro alle sei e mezza di mattina, la sua vita prenderà una svolta inaspettata. Ispirandosi e riscrivendo in maniera contemporanea il film di Carlos Saura, In fretta in fretta (Deprisa Deprisa,1980), Shipper delinea la svolta tragica di anime tragiche e leggere (Cocteau) costruendo la vicenda in un arco temporale preciso, dalla notte all’alba, in una Berlino che ci appare come un circoscritto teatro di posa. Lo sguardo di Shipper inizia a riprendere Victoria – interpretata meravigliosamente da Laia Costa - mentre balla all’interno di un club sotterraneo e non la lascerà più per tutto l’arco temporale del film. Come un quinto occhio maschile o come una visione esteriorizzata della protagonista femminile, la camera, ed allo stesso tempo, l’occhio dello spettatore diventeranno un personaggio partecipativo all’azione. Con il presupposto iniziale di giungere alla ricerca della vera Berlino, fine questo distante dall’occhio migrante o vacanziero che una metropoli multiculturale offre all’osservatore esterno, il gruppo di ragazzi ripercorrerà la strada della ricerca del vero senso romantico della città. Un romanticismo esistenziale e tragico in una Berlino contemporanea che possiede un’anima ancorata agli ultimi anni del 1700, un cuore che ancora batte al ritmo convulso dello Sturm und Drag, di natura ben più acida e claustrofobica, ritmata da bpm sommersi nelle sale dei suoi club, nelle sue sonorità techno in stretto rapporto semantico con una riscoperta del passato musicale e classico di una città tornata agli albori del suo Romanticismo. Victoria è una giovane ex-pianista in fuga dalle regole ferree ed amorali imposte nel conservatorio precedentemente frequentato, suona il Mephisto Waltz di Listz, uno dei brani del compositore ungherese che nel diciannovesimo secolo creava furore ed isteria durante le sue esibizioni proprio nella capitale tedesca. Lisztomania e possessione che ancora oggi nella città avvengono attraverso altre e più contemporanee definizioni musicali. Battito cardiaco di faustiana memoria che trascina i corpi in episodi di violenza, anime inconsapevoli che sopravvivono cercando di amarsi, urtando la vita anziché accompagnarla o lasciarsela fluire addosso, rappresentati con la stessa dolcezza di un piano sequenza che subiscono d’impulso, trascinati dagli effetti delle loro azioni. Uno sguardo straniero sulla città, diventata anch’essa un personaggio, la principale protagonista, un teatro di posa che si muove come un ingranaggio ad orologeria intorno allo sguardo partecipe ed in pedinamento, uno sguardo spettatoriale che coincide con lo sguardo di Victoria, con la sua voglia di scoperta della città e di se stessa (Sei sicura? - Si, voglio venire con voi), fino al suo esaurimento, alla fine dell’avventura tragica, dissolvendo il corpo attoriale tra le strade di una Berlino albeggiante, città che oramai è riuscita a raccontare, che non riesce e non vuole sparire, in strade che sanno ancora narrare storie e non vogliono smettere di farlo.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 17/12/2015

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