Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Il nuovo film di Roy Andersson è il capitolo finale di un trilogia sull’essere un essere umano: opera-summa sull’indifferenza che ci attanaglia e su una felicità possibile solo in un altrove lontano

1991. All’inizio di World of Glory, cortometraggio di Roy Andersson, uomini, donne e bambini nudi salgono su un furgone della morte, mentre una folla di persone li osserva incapace di far qualcosa. Soltanto il protagonista, un agente immobiliare, si volta a guardarci. Il pubblico condivide la colpa come spettatore impotente, sentendosi complice di un’assurdità che non è riuscito a impedire.

2014. Poco prima del finale di Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, una masnada di schiavi è rinchiusa all’interno di una sorta di cilindro roteante. Lo spazio viene serrato ermeticamente e le guardie armate appiccano il fuoco. Nell’inquadratura successiva una porta scorrevole, dopo aver riflesso le fiamme, viene spalancata come fosse un sipario. Quello che rivela è il rettangolo cinematografico, il grande schermo stesso in un gioco di specchi e riflessi, di carnefici e vittime, che chiude perfettamente la trilogia anderssoniana: un gruppo di signori ben vestiti osserva una strage divenuta spettacolo di gala. Ma questa volta lo show che è sotto i loro occhi siamo noi. Questi anziani imbalsamati ci guardano e capiamo di essere ormai al centro del cilindro. Non si legge alcun senso di colpa sui loro volti, solo la curiosità mondana di vedere l’ennesimo spettacolo offerto dalla società delle immagini. La strage diviene la sua stessa rappresentazione mediale, la morte lo spettacolo più ambito e costoso. Nonostante tutto nemmeno il fuoco desta più stupore, ciò che domina è la noia e l’indifferenza di un mondo bulimico d’immagini.

Cos’è cambiato in ventitré anni nel cinema di Roy Andersson? Perché prima eravamo complici di uno sguardo e ora ne siamo divenuti vittime? Sebbene Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza sia l’ultimo capitolo di una trilogia sull’essere un essere umano (che segue Songs from the second floor e You, the Living), il punto di partenza per poter comprendere le intenzioni del suo autore deve essere necessariamente quel lontano cortometraggio di tanti anni fa.

World of Glory inscenava infatti il senso di colpa che macchia l’intero 900. Nel finale del cortometraggio il protagonista non riusciva a dormire perché delle urla martellavano la sua testa. La moglie lo invitava a ignorarle e a riposare. Quei demoni collettivi di una memoria troppo dolente per essere accettata hanno finito per invadere ogni immagine di Roy Andersson. Eppure gli anni zero, quelli della successiva trilogia, sono andati nella direzione di un progressivo, spaventoso oblio della memoria: il senso di colpa ha ceduto il passo all’indifferenza. I cattivi pensieri di una volta sono diventati il rimosso degli eroi anderssoniani: questi, pur di continuare a sopravvivere, sono annegati nel distacco e nell’insensibilità di chi, in un modo o nell’altro, deve preoccuparsi di sbarcare il lunario (e non più di vivere). Quest’indifferenza è stata l’unica ancora di salvezza, ma anche la tragica maledizione dell’intera umanità.

I personaggi di Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza sono i sopravvissuti di un mondo ormai congelato, reduci anaffettivi di stragi e crisi, malinconici orfani del desiderio, fantasmi dimentichi dell’amore. Ma sono, ancora di più, solitudini che condividono lo stesso piano, si sfiorano senza riuscire mai realmente a toccarsi.

I tableaux vivants di Andersson si son fatti via via più algidi e, dalla disperazione di Songs from the second floor si è passati all’ironia acida di You, the Living, fino ad arrivare a quello che sembra il suo film in assoluto più asfittico e opprimente.

39 piani sequenza digitali, con la camera rigorosamente fissa e le tonalità fredde di un mondo (già) finito. Un campionario di umanità sfatta e distaccata, perfino buffa nel suo gelido grigiore. L’architettura dell’immagine sembra quella di un Bruegel urbano, gli interni riecheggiano un Hopper sopravvissuto a se stesso, i personaggi assomigliano alle geometrie fragili e deformi di un Otto Dix rinato in epoca di crisi. Questa perfezione compositiva, quest’ordine algido e plumbeo in cui gestire il mondo e le relazioni (in)umane, è l’assurdo teatrino del reale. Eppure, rispetto ai due film precedenti, si ha come l’impressione che qualcosa sia cambiato. Se prima ogni inquadratura era celebre per la sua miracolosa apertura, per i punti di fuga in cui lo sguardo finiva per smarrirsi, ora sembra che Andersson finisca per comprimere molti dei suoi spazi, per chiudere le inquadrature restituendo un senso di crescente, incresciosa asfissia.

E’ un Andersson che sente necessariamente il bisogno di porre muri e pareti, vetri e confini. Certo, l’occhio è ancora libero di perdersi, le azioni sono spesso simultanee, eppure la profondità di campo deve arretrare e sbattere contro un muro. Fanno eccezione i piani in cui i tempi si confondono, in cui il sogno di un altro mondo disvela tutta la sua apertura, o in cui gli incubi protraggono lo sguardo verso altre, infinite possibilità.

Quest’ultimo film è il capitolo più mortuario della trilogia: i tempi si allentano, le attese si susseguono, i personaggi si aggirano come zombie che sono (già) morti nel momento stesso in cui hanno smesso di amare. Volto incolore, sguardo spento, passo arrancato, Andersson passa in rassegna le (non) vite in tempo di crisi.

Il fil rouge del film sono due rappresentanti che lavorano nell’ambito del divertimento. Vendono denti da vampiro con canini extralunghi, sacchettoni che ridono (un gran classico!) e maschere da zio con dente solitario. Cercano di portare la felicità agli infelici. Sono loro i due contemporanei caronte del film, gli sguardi buffi, goffi e malinconici, che ci fanno da guida nell’assurdo mondo in cui viviamo. Ed è un assurdo, questo, in cui non esistono risposte a domanda alcuna: nei cieli plumbei della Svezia domina ancora il bergmaniano silenzio di Dio, eppure esiste una remota, sconosciuta felicità di cui rallegrarsi. Ma questa felicità muta, situata dall’altra parte della cornetta, è un altrove fuoricampo. I vari personaggi del film, infatti, si rallegrano che all’altro (mai a loro) vada tutto bene. Ma qual è quest’alterità felice? Da dove viene? Si può esser lieti solo della felicità altrui.

Tra incontri con la morte che arriva inattesa in salotto e anziani agonizzanti che vogliono portare i propri beni materiali in cielo, tra poveracci che urlano che non ci sono più soldi e non-luoghi dove scoprire che siamo (ancora) al mercoledì, si spalanca l’ipotesi di un mondo altro in cui poter cantare. Andersson viaggia nel tempo e nello spazio, ritorna, senza soluzione di continuità, a un 1943 in cui si era poveri ma felici, in cui si poteva comprare la grappa al prezzo di un bacio. Così come in You, the Living!, eravamo catapultati in una casa-treno dove poter vivere un viaggio di nozze, qui lo schermo si squarcia, aprendosi a possibilità chimeriche e trasognanti. Ma quello di Andersson non è banale rifugio nel passato, ma opportunità tutta narrativa di creare un mondo altro: il cinema, si sa, è più bello della realtà, e rifugge da qualsiasi costrizione. Il rientro nel reale sarà traumatico come mai: un anziano signore avanza attempato nel locale in cui una volta rideva, amava e cantava. E’ quasi sordo e porta il peso dell’età e del dolore sulle spalle.

I tempi finiscono per sovrapporsi: re Carlo XII entra in un bar dei nostri giorni e chiede un bicchiere d’acqua, prima di andare a combattere contro la Russia. La Storia si trova oltre la vetrina di un pub, al suo interno c’è solo spazio per gli uomini e le piccole, assurde cose di ogni giorno.

“Com’è difficile essere umani” diceva uno dei personaggi di Songs from the second floor. Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza direbbe forse Com’è difficile essere un essere umano: bisogna tentare di vivere. Mentre il denaro e la stupidità umana dilagano nel mondo, sentiamo la voce di una bambina down, ennesima figura ai margini, saggio che sostituisce il lucido folle dei film precedenti: i piccioni non hanno i soldi eppure continuano a volare. Alla ricerca di un mondo altro dove essere felici, di una dimensione del riscatto dove questi fantasmi possano ritrovare carne e cuore. E se ci si chiede dov’è finito poi l’amore, allora l’immagine fuori dal tempo di due giovani che si abbracciano su una spiaggia deserta, mentre un cane nero è sdraiato ai loro piedi, irradia lo schermo.

Va tutto bene e fa piacere che le cose vadano bene.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 18/02/2015

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