Suffragette

Didascalico ma necessario: con la Gavron le Suffragette hanno il volto sofferente e l’animo di guerriere

Prima di loro le donne non avevano diritti, né tantomeno una voce per protestare. Prima di loro ogni donna valeva meno di qualsiasi uomo ed era proprietà del padre e del marito. Poi sono arrivate loro, le Suffragette, e la lunga strada della conquista dei diritti è diventata una salita difficile, densa di ostacoli ma intrapresa con coraggio e tenacia. Il nome Suffragette evoca immediatamente le immagini in bianco e nero dei libri di storia, di donne che all’inizio del ‘900, con strani cappellini in testa e larghe gonne lunghe, sfidavano le autorità e i propri mariti per rivendicare il diritto di voto. Subito dopo, nella nostra memoria, fa capolino la figura della mamma dei piccoli Banks, che lasciava i suoi due figlioletti alla nanny Mary Poppins per andare a protestare con le altre suffragette. Ora a dare un volto a queste donne c’è anche il film di Sarah Gavron, nelle sale italiane dal prossimo 3 marzo, che torna là dove questo movimento era nato ed esploso: Inghilterra 1912. La leader indiscussa del WSPU (Women’s Social and Political Union) Emmeline Pankhurst è interpretata da un meraviglioso cameo di Meryl Streep, la quale dall’alto della sua posizione di leader indiscussa pronuncia un discorso capace di infiammare anche la più fredda delle platee: “I’d rather be a rebel than a slave” (preferirei essere una ribelle che una schiava) e “Never give up the fight” (non mollare mai la lotta). Ma non c’è solo la grandissima Streep. Accanto a lei un cast di meravigliose interpreti: Carey Mulligan (che interpreta Maud Watts), Helena Bonham Carter, Romola Garai e Anne -Marie Duff. Scritto da Abi Morgan (The Iron Lady, The Hours), il film della Gavron è incentrato sulla figura di Maud Watts (personaggio inventato): una semplice operaia di una lavanderia che si ritrova coinvolta nelle lotte e nelle proteste delle sue colleghe. Da spettatrice, la Watts finisce con il lottare in prima fila, costretta a rinunciare a tutto in nome della causa. Una volta entrata nell’esercito delle Suffragette non può più lavorare, non può badare a suo figlio, e neanche vivere nella sua casa. La Mulling riesce con passione e straordinaria naturalezza a rendere vivi i conflitti interiori di questa giovane donna e a rendere viso, occhi, labbra ed espressioni la sua rabbia nei confronti di una società totalmente maschilista, che le strappa via suo figlio senza alcuna voce in capitolo. Il lento evolversi della sua presa di coscienza è puntellato da una sceneggiatura di eventi che inevitabilmente conducono la protagonista a fiancheggiare le altre donne, molte delle quali personaggi storicamente esistiti, come Emily Davidson. Le Suffragette della Gavron non sono state le prime della storia, ma senza dubbio sono state le più radicali, le più violente e combattive. A differenza di altri movimenti, quello inglese faceva uso di azioni sovversive per richiamare l’attenzione del popolo e dei media: scelsero la guerra perché era l’unico strumento che gli uomini conoscevano. Ma le loro azioni non dovevano provocare vittime, solo suscitare scalpore. Queste donne erano spesso imprigionate, costrette al nutrimento in caso di sciopero della fame, torturate e pedinate. Per la prima volta con una lente d’ingrandimento vediamo fra le pieghe di un movimento trasversale, che coinvolgeva donne di diversa estrazione sociale, ma con le medesime problematiche e sofferenze. Ed è così che i dolori di Mrs Watts diventano quelli di tutte le donne, di tutte le epoche e località, e i suoi sogni sono tutt’ora inseguiti da altre donne. Fu in quei giorni e in quella terra nordica e lontana che le donne iniziarono ad alzare la testa, prima di ogni altra rivendicazione per l’eguaglianza. Seppure il film procede lentamente, racconta le vicende con garbo ed eleganza. Avrebbe potuto giocare di più con un tema che fornisce numerosi appigli di pathos e coinvolgimento, invece risulta talvolta al limite del didascalico. Le origini documentaristiche della Gavron sono visibili in alcuni passaggi che sorprendentemente trasportano lo spettatore fra le strade di una Londra di un altro secolo. I dialoghi sono densi di frasi ad effetto che suonano come motti indimenticabili, uno su tutti: “Deeds no words” (fatti non parole). E sono i fatti veri, le lotte in bianco e nero riprese dalle prime telecamere in quei giorni ormai lontanissimi, a ricordare che quelle donne erano madri, figlie e lavoratrici, erano e saranno tutte le donne di tutte le epoche. Una didascalia ripercorre le tappe del diritto di voto fino ad oggi: in Arabia Saudita le donne possono votare dal 2015. Per non dimenticare che la libertà non è mai concessa ma sempre conquistata. E la lotta non è ancora finita.

Autore: Shaila Risolo
Pubblicato il 01/03/2016

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