Speciale Oriente #13 / Okja

Sesto film per Bong Joon-ho, distribuito attraverso Netflix, che conferma l'attenzione dell'autore sudcoreano per i legami affettivi, in un racconto sui dualismi, ma ad altezza di bambino

Il cuore oltre l’ostacolo. Letteralmente, con Okja, Bong Joon-ho compie un salto dall’altra parte delle sue consuete coordinate, per aprirsi alla visione opposta, al controcampo esteriore, dove la cupezza si stempera stavolta negli schiamazzi del gioco infantile, e il rischio di precipitare da una rupe si annulla nell’avventura di un paesaggio selvaggio, ma mai davvero pericoloso. La scelta del “film per famiglie”, in fondo, non è estemporanea per un autore che da sempre lavora in modo raffinato sulle coordinate estetiche e narrative dei generi, come dimostra anche stavolta la straordinaria sinergia tra musica e immagini, dove i corpi spesso si muovono di concerto con i ritmi imposti dalla colonna sonora.

A restare invece intatta e coerente è la ricognizione empatica attorno ai legami di una comunità o famiglia. In questo senso Okja è già il controcampo di The Host, dove la creatura mostruosa diventava il perno attorno a cui triangolare le relazioni di una famiglia divisa: qui, al contrario, il rapporto che lega la piccola Mija al “super maiale” Okja è assolutamente peculiare ed esclusivo. Nel senso, ancora una volta, letterale del termine, perché non comprende altri orizzonti che non siano il proprio. Non solo perché Mija e Okja parlano un linguaggio personale – di cui non udiamo le parole, quando la bambina le sussurra all’orecchio del suino – ma anche perché tutto il film è attraversato dallo sguardo perso oltre l’orizzonte della piccola, che si disinteressa totalmente alla questioni poste da chi le sbarra la strada verso il ricongiungimento con l’animale. Siano essi i “cattivi” macellai della Mirando che vogliono usare la carne suina per appagare il palato dei loro clienti, o gli animalisti della LFA che intendono perorare la causa di chi non vuole più l’uccisione di esseri viventi.

L’autore sudcoreano articola questo discorso declinandolo in un tono ad altezza di bambino. Di concerto con la fotografia di Darius Khondji, Bong crea una realtà non tanto fiabesca, quanto iperrealista nei cromatismi e nel rapporto di dimensioni. La piccola Mija è infatti l’unica vera adulta in un mondo dove i “grandi” sembrano rincorrere obiettivi introflessi e autoreferenziali, destinati a zittire i propri tormenti interiori, laddove lei è l’unica a pensare anche per gli altri, a figurare un legame che comprenda se stessa e la sua famiglia – allargata, come ci dimostra il finale con tanto di nuovo pargolo adottato dal super maiale. Il riferimento fiabesco permane in un legame esclusivo che diventa prospettiva da cui reinquadrare il mondo, al pari del magnifico Guillermo Del Toro de La forma dell’acqua: la questione politica messa in campo dai due autori è infatti condivisa sulla necessità di reimparare a vedere, scardinando le categorie tradizionali.

In questo senso, Bong eleva il gioco a meccanismo mimetico, articolato sulle aspettative dello spettatore: ogni scena ha quasi sempre una doppia interpretazione, il faticoso monte da salire per raggiungere la casa di Mija è l’unico avamposto di umanità in un mondo egoista; il super maiale destinato a salvare il mondo dalla fame è vittima di un meccanismo oppressivo sintetizzato dai totalitarismi oltre il filo elettrificato del mattatoio-lager; il meccanismo per monitorare il maiale diventa una telecamera-spia; e anche quando vediamo Okja quasi ingoiare la piccola Mija, in realtà sta subendo solo un terapeutico massaggio ai denti da parte della premurosa bambina. Il concetto nodale è la necessità di riscrivere le categorie e in questo senso, Okja lavora in maniera precisa sul simbolismo: il maiale diventa così un’icona fluttuante, estremamente realistico nella precisione degli effetti digitali, eppure sempre pervaso dall’alterità della propria natura irreale. È un mostro – che ci riporta a del Toro – eppure è pienamente immerso nelle gradevolezze dell’estetica “cute” che siamo solitamente abituati ad associare al kawaii giapponese, ma che è fortemente addentro anche alla cultura pop sudcoreana.

In questo modo, Okja è davvero un film profondamente sudcoreano, stante la sua natura a metà fra Asia e America, a livello produttivo e narrativo: un dualismo che si ritrova nell’iconografia associata al maiale, dalla statuetta dorata che ne riscatta il valore economico, al pallone delle parate che gli attribuisce la natura di idolo popolare e corpo-cartoon. E anche nel duplice ruolo di Tilda Swinton, manager nevrotica o donna d’affari tutta d’un pezzo – un’esplicazione forse eccessiva per un film già abbastanza lungo. Quindi il discorso caro a Bong è ancora una volta quello di una realtà che deve rispecchiarsi con il suo dualismo per scendere a patti con la reale sostanza del proprio tessuto sociale, fra le divisioni istillate dalla storia e dai meccanismi economico/classisti e l’esigenza di ripartire dai legami affettivi. Il tutto in una chiave più divertita, ma sottilmente anche un po’ umbratile: la salvezza del maiale non impedirà il massacro di tutti i suoi simili e non cancellerà le sofferenze patite, da cui ci si è sottratti solo scendendo ai patti delle regole imposte dal mercato, figurando un orizzonte che è anche quello del nemico. Memories of Murder, appunto.

Autore: Davide Di Giorgio
Pubblicato il 13/03/2018

Articoli correlati

Ultimi della categoria