Solo: A Star Wars Story

Con il suo spinoff Ron Howard costruisce un appassionante avventura spaziale che conferma il primato assoluto della sala come modalità di fruizione filmica.

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In Blade Runner 2049, un testo cardine nel racconto della nostra condizione post-mediale insieme a Ready Player One, la città di Las Vegas, luogo artificiale per eccellenza del Novecento, diventa l’ultimo baluardo della cultura visuale del secolo scorso. Le rovine post-apocalittiche della città non offrono rifugio soltanto ad una determinazione dell’immagine ma anche ad un’icona dell’immaginario cinematografico novecentesco, Rick Deckard, impersonato da Harrison Ford, per antonomasia l’attore mito. Da Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo a Cowboys & Aliens, e ancora da Star Wars: Il risveglio della Forza fino appunto a Blade Runner 2049, è toccato proprio all’attore americano ri-mediare i propri personaggi entrati di prepotenza nell’immaginario collettivo. L’affascinante ipotesi è che, in epoca di iper-mediazione e di rilocazione, di crisi dell’ontologia dell’immagine filmica e di ambienti sintetici, Harrison Ford si caratterizza come iper-icona del Cinema, un eroe ri-mediato in un nuovo ambiente esperienziale.

Solo: A Star Wars Story espande ulteriormente l’universo di Guerre Stellari, provando a colmare il vuoto fordiano impossibile da riempire. Dopo essere stato affidato alla coppia Phil Lord & Christopher Miller, che hanno rinunciato all’incarico per divergenze creative con la Disney, il timone dell’operazione è passato al più istituzionale Ron Howard. Dalla deriva magmatica dei nuovi media al classicismo di una colonna portante del cinema americano dell’ultimo ventennio: in questo caso, il cambio di regia funziona come manifesto programmatico di questo secondo episodio della Star Wars Anthology. Gli elementi extradiegetici invitano ad un’esperienza totalmente classica del film.

Han Solo è un ragazzo sveglio, sfrontato, intraprendente ed innamorato. Insieme a Qi’ra commette furti di vario genere per comprare la propria libertà. Dopo un colpo non andato a segno, la ragazza viene catturata e Han riesce a fuggire dagli imperiali, con la promessa di tornare a salvarla, prima o poi. Tra fughe al cardiopalma ed incontri a sorpresa, rapine al treno e colpi di scena, Han Solo porta avanti la ricerca di Qi’ra, affrontando nemici e definendo, lungo la strada, la mitologia di cui il suo personaggio è ammantato.

Alla sceneggiatura del film, troviamo Jon Kasdan e Lawrence Kasdan, già firma di Episodio V, VI e VII, e de I predatori dell’arca perduta, quindi uno specialista di un determinato tipo di intrattenimento. L’universo di Solo: A Star Wars Story segna un ritorno agli anni ’70 e all’ibridazione avventura-risate che ha un suo referente immaginario proprio nella saga di Indiana Jones. Uno dei maggiori pregi del film risiede proprio nella fluidità con cui Solo si muove ed oscilla tra i più disparati generi. In particolare l’innesto di un trickster come Woody Harrelson consente uno slittamento verso le costruzioni ad inganno del poliziesco, bilanciato dal sintagma della grande rapina al treno che sposta ulteriormente il baricentro verso l’avventura e guarda alla storia del cinema come archivio di forme.

Il fatto, poi, che Harrison Ford non manchi più di tanto dimostra ulteriormente la forza di un brand ma, soprattutto, di una narrazione come quella di Star Wars, il cui contenitore archetipico si afferma come un vaso di Pandora da esplorare, consapevoli di trovarsi dinnanzi a situazioni lontanissime nel tempo e nello spazio. Gli scambi di battute da commedia sofisticata si intrecciano a campi lunghissimi in cui il deserto si riafferma come spazio liminale connesso alle (nuove) identità dei personaggi.

In epoca di rilocazione e di strategie di riparazione, Ron Howard porta in scena uno spettacolo da montagne russe, un film di esseri umani e di fantasmi (lo spettro di Indiana Jones sembra seguire ogni movimento di Han Solo e proteggerlo silenziosamente), un inno all’epica della sala cinematografica e della profondità degli spazi. L’ultimo baluardo di resistenza di un’umanità nascosta a Las Vegas ed assediata dai new media?

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 01/06/2018

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