Roma 2013 / Dal profondo

Si scava ancora il carbone in Sardegna. Questo “ancora” è utilizzato non a caso per sottolineare la resistenza di un lavoro e una tradizione culturale sul punto di morire perché semplicemente non servono più. Non si può lottare contro l’avanzata del progresso, ma di quei lavoratori oggi sottopagati, sempre a rischio di licenziamento, di quel mestiere nascosto agli occhi dei più, centinaia di metri sotto terra, cosa rimarrà? Dal profondo di Valentina Pedicini parte dall’oscurità della vita in miniera in un’appropriazione da parte della macchina da presa dello sguardo nel buio del minatore: non è solo visto, ma vede, in un film che è innanzitutto una lunghissima soggettiva. La luce è scarsa, garantita dall’illuminazione elettrica. All’inizio non si vedrà nulla, il diaframma oculare dovrà aprirsi per far entrare più luce; poi ci si abituerà, finendo per sentirsi quasi accecati dalle lampadine sotterranee. Dopo, ad aspettare c’è un immenso silenzio. Non tramonta e non albeggia mai, non scorrono le stagioni, si fatica a respirare, pelle e polmoni si riempiono di polvere.

Le profondità della terra affascinano e devastano chi decide di visitarle, in un viaggio mistico e maledetto, un lavoro spesso ereditato da padre in figlio o, nel caso di Patrizia, unica donna minatrice, in figlia.

Fare il minatore è un lavoro faticoso, che spesso ripaga gli sforzi con malattie e paghe misere: l’immensa frustrazione dei pochi lavoratori rimasti racconta un mestiere ingrato, pericoloso e socialmente ignorato. Proprio per questo l’amore per la miniera che trapela dai volti e dai racconti di chi ci vive è un sentimento quasi incomprensibile che la regista cerca di spiegare incollando gli occhi dei minatori ai volti degli spettatori, perché questi imparino a vedere attraverso il buio, la polvere, i rumori amplificati nel silenzio. È il fascino della perfetta solitudine, di un mondo alternativo, rallentato, dove le regole di sopra non valgono e il corpo si riadatta a una natura scavata nella sua interiorità plastica. Facile sentirsi smarriti, ai confini della terra, e la paura è un elemento costante in un ambiente le cui pareti rischiano sempre di collassare sulle spalle di chi le costeggia; ma il panico è anche fonte di seduzione per la sensazione di essere lì dove quasi nessun altro è stato, per vedere ciò che in pochi vedono.

Dove vanno le persone quando le perdiamo per sempre? Tutto quello che sappiamo di certo è che materialmente tornano alla terra che mischia le loro polveri alle proprie. Per chi scava questa terra, inevitabile è un incessante dialogo con i morti, gli assenti, spesso anch’essi minatori che da questo mestiere avevano messo in guardia o, al contrario, avevano prodotto per i figli piccoli storie fantastiche da sostituirsi alle fiabe della buonanotte. Dal profondo è il richiamo ai padri, quelli scomparsi recentemente e quelli antichi, antenati di cui i pochi rimasti nelle cave ricalcano le ombre sempre più lunghe e distanti sotto l’esiguo chiarore. Sono forse questi, gli ultimi rimasti; persi loro non ce ne saranno altri, perché le cose cambiano e nulla si può fare contro questo dato di fatto. In posa, sporchi e anneriti, i volti degli uomini e dell’unica donna che guardano e si fanno guardare tramite lo sguardo cinematografico di Valentina Pedicini sono orbite in cui si misura la distanza da noi, comuni mortali, dal mondo come lo conosciamo, con un’unica certezza: nessuna visione può essere impedita dall’oscurità, che è solo una convenzione mentale. Si vede sempre, anche al buio.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 15/10/2014

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