Roma 2013 / Come il vento

Armida Miserere inizia a lavorare nelle carceri italiane negli anni Ottanta. Ambiente e periodo non sono particolarmente favorevoli: si è conclusa da poco la stagione della strategia della tensione e lei è una delle prime donne a farsi spazio nell’ambiente misogino e violento della detenzione. La doppia inclinazione italiana di natura forcaiola-lassista fatta di abusi di potere da parte delle guardie sui detenuti e di ordini di boss mafiosi da dietro le sbarre vigeva allora come oggi e intimidazioni, minacce ed esecuzioni di chi non piegava la testa erano all’ordine del giorno. Nel 1990 viene ucciso dalla camorra il suo compagno Umberto Mormile, educatore carcerario, anni dopo vengono assassinati i suoi cani, biglietti e pallottole vengono spedite per posta, e come spesso accade, devono passare decenni prima che i responsabili vengano – quando questo succede, perché non è scontato – trovati. Nel 2003, all’età di 46 anni, Armida si spara un colpo in testa.

Narrare la persona che deve vivere tutto questo è l’obiettivo primario di Come il vento, e anche il suo maggiore punto debole. C’è l’esigenza potente di descrivere il personaggio, renderle omaggio: questa donna Va raccontata, va raccontato il suo bisogno di amore e la sua fermezza morale, e la solitudine che nemici invisibili o meno le costruiscono addosso, negandole l’opportunità di farsi una famiglia, sostituita dalle scorte e dalle facce sempre diverse ad ogni trasferimento. La volontà di fornire un ritratto esaustivo di un’esistenza piegata e pur tuttavia testarda costruisce una figura di donna commovente ben resa dall’interpretazione di Valeria Golino, ma si rende anche ostaggio di uno sguardo che, teso sulla protagonista, tralascia quell’ambiente così complesso in cui deve agire. Il film di Marco Simon Puccioni delinea solo a grandi tratti l’universo carcerario ove la sopravvivenza è sinonimo di appropriazione del potere sia da parte dei nomi criminali importanti che dalle guardie che in forza del proprio ruolo possono vessare i piccoli pesci costretti alla detenzione. Carcere come luogo di punizione, o rieducazione, o entrambe le cose a livelli diversi; autorità concepita, nell’espressione orwelliana del potere, quale facoltà di subordinare il prossimo arrecandogli umiliazione; tutti elementi che Come il vento mostra sullo sfondo senza far emergere il rapporto conflittuale che c’è fra chi deve far rispettare le regole e chi queste vuole romperle per imporne altre, e la superiore facoltà di alcuni di superare le barriere del diritto – siano mafiosi, poliziotti, o politici – per la propria supremazia personale.

In un paese recentemente traumatizzato dalla vicenda di Stefano Cucchi, che ora torna a discutere di amnistia, capire come e chi deve confrontarsi con l’ingiustizia e la rabbia e l’odio che da questa possono conseguire, ne esca cambiato in modi molto diversi da persona a persona sarebbe stato prezioso per avviare un confronto costruttivo fra le parti in causa, chi giudica e chi deve essere giudicato, e i diritti/doveri di entrambi. In virtù della necessità morale di consegnare alla storia una figura femminile che doveva poter essere conosciuta dal pubblico popolare Come il vento esaudisce il proprio scopo ma, così pervicacemente concentrato su di esso, manca l’opportunità di una più ampia raffigurazione delle questioni che pesano sul sostrato sociale dell’Italia; lasciando sullo schermo un ritratto dolente ed efficace, ma troppo limitato rispetto al bisogno di capire quale atteggiamento sostenere nella battaglia al crimine, e perché sceglierne uno piuttosto che un altro. Domande che in mancanza di un’esaustiva trattazione, rimangono senza risposta, come un nodo doloroso, ancora oggi.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 15/10/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria