Psychomentary

Il mockumentary di Luna Gualano riesce a intrattenere lo spettatore ponendosi delle domande etiche, con un equilibrio di stili diversi

La bramosia di vendetta è il demone più subdolo che consuma la coscienza e droga lo spirito. Valeva ieri per Edmond Dantès e vale oggi in Psychomentary, diretto da Luna Gualano con la sceneggiatura di Giorgio Amato e vincitore dei premi Miglior opera prima e Migliori effetti speciali del TOHorror Film Festival 2013. Si tratta di un thriller ad alta tensione ma la tecnica del falso documentario e le scene macabre ci permettono di accostarlo all’horror, in una commistione di generi che prende qualcosa in prestito dal revenge movie canonico. La storia narra di un uomo col volto coperto da una maschera da uccello che sequestra la figlia di un senatore chiedendo una somma di un milione di euro per la vita della ragazza. Ben presto si scopre che non sono i soldi il vero obiettivo del rapitore, il quale grazie a un ben orchestrato piano riesce a tenere in scacco il comando dei ROS per portare a compimento un progetto più ampio.

Il rapitore in persona ci presenta l’opera in apertura come documentario creando un’atmosfera di realismo che si manterrà fino all’ultima scena, grazie anche alle riprese che appaiono come rubate dalle telecamere nascoste. Lo spettatore osserva le vittime dal medesimo punto di vista del cattivo, il quale, dotato di assoluto controllo sugli eventi, ricorda l’onnipotente Jigsaw della fortunata saga di Saw. Più che un rapitore è un pirata, sia per i suoi hack informatici che per il suo tentativo di impadronirsi del comando con la violenza e l’astuzia; e come un pirata fronteggia apertamente le sue vittime, non fugge dalla polizia ma la assalta rivelando spontaneamente il proprio volto. Proseguendo ci si accorge infatti che la sua maschera non è altro che un espediente narrativo che impedisce di personificarlo come essere umano, per identificarlo più correttamente come motore inarrestabile degli eventi. Le sue azioni capaci di inorridire non ci fanno mai veramente paura, in quanto prevedibili manifestazioni di un destino ineluttabile. Villain emotivamente distaccato nel suo essere spietato, non si lascia mai andare a scontate sticomitie psicologiche con fanciulle inermi poiché è Il capitano dei ROS la sua vera vittima al quale cede dall’inizio il ruolo da protagonista. Chi stabilisce il prezzo di una vita umana? A questa domanda dovrà rispondere prima di tutti il capitano Brunetti: presentato come ambizioso ufficiale in ascesa, che compie una parabola emotiva completa. Lui rappresenta l’uomo comune: dapprima superbo e sprezzante contro il pericolo quando a pagare il prezzo delle sue scelte sono gli altri, successivamente vile quando stabilisce il valore di una vita umana cedendo alla trappola del suo rivale, e infine arrendevole quando, in un sottile gioco delle parti, si ritrova impotente davanti al suo giudice iniquo.

Immagine rimossa.

La sceneggiatura solida e creativa funziona bene, una leggera dose di sospensione dell’incredulità ci permette di perdonare qualche neo come ad esempio la facilità con cui le forze armate si lasciano manipolare. Il cast, ridotto al minimo come si confà a un’opera con costi di produzione limitati, è all’altezza del suo compito, ma il doppiaggio dell’uomo in maschera lascia perplessi sia per la qualità tecnica che per l’impostazione forzatamente spigolosa della parlata. La regia è ineccepibile e il film fila senza intoppi, con un sapiente uso delle scene cruente: poche ma efficaci; garantendo un crescendo di tensione che si scioglie in un finale angosciante e inconsueto. L’atmosfera è cupa, reale e le musiche in equilibrato conflitto con l’opera sanno dare movimento. Lo sviluppo degli eventi viene più mostrato che raccontato a parole, e ne risultano dei dialoghi limitati alla funzione narrativa, quindi troppo prevedibili. Persino le allocuzioni dell’uomo in maschera, che avrebbero il compito di alzare il livello, appaiono fragili sul piano concettuale, specialmente nel monologo conclusivo, che indebolisce la trama generando una nuova chiave di lettura sulle ragioni del sequestratore. A convincere poco è senz’altro la critica sociale; aspetto più delicato dell’opera ne rappresenta il messaggio di fondo senza tuttavia ricevere adeguato spazio.

Nel film, che ha il pregio di affrontare in modo originale il discorso sul diverso valore delle vite umane, non emerge in nessuna scena un tentativo di antitesi al cinismo del cattivo e la sovrapposizione tra punto di vista dell’assassino e punto di vista del pubblico, che tanto era apprezzabile nelle scene di pathos, si rivela un limite concreto allo sviluppo di tematiche complesse, ridimensionando il momento riflessivo. Queste increspature non minano il risultato finale dell’opera che rappresenta un piccolo gioiello del panorama thriller italiano. Girato da una regista esordiente, Psychomentary è un valido esempio di come si possa fare cinema di qualità a basso costo. Con una rappresentazione altalenante dell’eterna lotta tra bene e male mette a nudo le contraddizioni di una società capace di darsi delle regole condivise da tutti ma non a misura di uomo e cerca di portare il pubblico a riflettere (cosa rara per il genere), unendo insieme linguaggi diversi e ricordandoci che spesso budget milionari non valgono i risultati delle buone idee.

Autore: Michele Barone
Pubblicato il 25/04/2017

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