Loveless

La scomparsa di un bambino già invisibile: Zvyagintsev fa l’autopsia della Russia e della natura umana

Russia, oggi. Un uomo e una donna stanno per divorziare: sono già lontani, perché Zhenya (Maryana Spivak) ha un altro partner e Boris (Aleksey Rozin) ha perfino messo incinta la nuova e giovane compagna. Tra loro c’è solo Alyosha (Matvey Novikov), tredici anni: il figlio che non dovevano fare e che oggi è diventato inopportuno. La presenza del bambino non consentirebbe di rifarsi una vita, così Zhenya e Boris hanno già deciso: andrà in un istituto. Sarà un orfano con genitori. Mentre stanno scegliendo chi dovrà dirglielo, il piccolo ascolta casualmente una conversazione. E scompare.

È una lunga autopsia della Russia, la filmografia di Andrey Zvyagintsev: al quinto lungometraggio il cineasta siberiano continua a sviluppare con Loveless il tema prediletto e lo fa attraverso la costruzione dell’immagine, in un nuovo passo avanti della personale poetica. Egli guarda a Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman: l’unica scena che propone è però quella esiziale, con i coniugi che si azzuffano nelle ceneri di un rapporto. Nel nostro contemporaneo, ormai, l’unico dettato è l’individualismo e il pensiero va solo a se stessi: gli ex amanti sono costretti allo stesso tetto, come in Dopo l’amore di Joachim Lafosse ma con l’“incidente” della prole, e perseguono l’interesse particolare, ognuno in modo diverso ma implacabile, mentre sanno dei rispettivi compagni e vivono altre vite. Considerano il figlio oggetto di intralcio. Se nel concreto Alyosha svanisce, di fatto i suoi genitori lo hanno già fatto sparire: relegato fuori campo, previsto lontano da loro, in una concezione assodata che il regista rende mirabilmente a livello visivo. Il bambino non è protagonista del racconto, non viene fatto parlare ma spesso zittito, si vede appena e simbolicamente nascosto nel buio, appare e subito scompare: come un fantasma in via di dissolvimento non sembra avere corpo né voce, così quando emette un urlo questo risulta silenzioso e quindi più lancinante.

All’atto della sparizione si innesca così un giallo sociale: dov’è finito il bambino? E come si comportano i genitori? Zhenya e Boris provano a continuare le loro vite, coi rispettivi amanti, ma è qui che vengono davvero “disturbati” dal figlio, perché devono partecipare alla ricerca: per farsi ascoltare Alyosha deve svanire. D’altronde essi non affermano mai la verità davanti alle autorità, non dicono il motivo dell’allontanamento, la già avvenuta “invisibilizzazione” del bimbo. A quel punto interviene un para-Stato, vero e proprio apparato alternativo nella nazione russa: se l’autorità è inerte, per sua stessa ammissione, arriva allora un meccanismo di volontariato che si impegna con forza a ritrovare bambini scomparsi. Che non si rassegna a perdere i figli. Colmando un vuoto nella Russia di Putin, preoccupandosi di coloro che sono trasparenti, in questi attivisti Zvyagintsev ripone l’unica nota umanista, sintetizzata nella figura del tenace coordinatore.

È una teoria facile? Troppo evidente questo cinema? Per il regista è così il suo Paese: loveless, senza amore, esattamente come in Leviathan il sindaco corrotto voleva espropriare la terra del protagonista (il dominio dei ricchi sui poveri, la legge dei lupi, lo Stato di Hobbes: la Russia, ancora e sempre). L’autore non riserva alcuna “condanna visiva” alle figure più egoiste, tutt’altro: le segue in quanto umane, la loro azione è un dato di fatto. Così assistiamo alla splendida scena di Boris che fa sesso con la donna incinta, in un gioco stilistico di penombre che lascia intuire le forme dei corpi, o vediamo una lenta ripresa circolare che partendo dal suo uomo infine ci rivela Zhenya, assopita nel letto malgrado il figlio scomparso. Entriamo nelle loro vite e, anche noi, rischiamo di dimenticare Alyosha. Ma lo spettro del bambino è sempre presente: infesta gli ambienti post-industriali, gli edifici cadenti e i capannoni dismessi del paese, come quello in cui si concentrano le ricerche, e mentre si indaga gradualmente emerge la condizione di uno Stato cantiere fatiscente rappresentato come eterno work in progress incompiuto. Poi, joycianamente, cade la neve e avvolge anche le speranze di riaverlo vivo.

Loveless è una metafora che porta un messaggio, in questo non c’è niente di male: Zvyagintsev conosce la differenza tra fare la morale ed essere morali. A quella moralità egli arriva perfino attraverso la metafisica (eccolo il vero possibile accostamento con Tarkovskij, ma qui il nome chiave resta Bergman). Non è però un messaggio chiuso, è più aperto di quanto appare. Cosa vuole dire, il regista, con quell’inizio e chiusura circolare sugli alberi innevati, ai bordi del lago, su quei rami contorni che sembrano concretizzare il “legno storto” di Kant? Dal legno storto di cui è fatto l’uomo non può uscire nulla di interamente dritto. Lo attesta qui Alyosha, che è sparito ma ha lasciato un segno, il nastro poliziesco con cui giocava continua a sventolare su un alto ramo: ci dice che la scena del crimine è la stessa natura, quella dello Stato e degli uomini, che una parte di colpevole è dentro noi tutti.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 14/12/2017

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