La vergine dei sicari

Lo sconvolgente film di Barbet Schroeder è una discesa negli inferi di Medellin dove ogni azione, dalla più brutale alla più dolce, risponde a un regime di assoluta, incontrovertibile gratuità.

C’è una profonda tristezza radicata all’interno dell’universo chiuso, asfittico e violento di Medellin, in Colombia. Una tristezza strutturale che intasa qualsiasi via d’uscita. O forse non si tratta di tristezza, ma di un’improvvisa tenerezza, di un’inattesa, incredibile innocenza che ritorna sempre, perfino negli episodi più brutali e gratuiti. La città che racconta La Vergine dei sicari di Barbet Schroeder, tratto dal libro autobiografico di Fernando Vallejo, è in realtà un inferno privato, un circolo chiuso dominato dal più inumano degli automatismi: l’omicidio. Eppure, all’interno del peccato per eccellenza, laddove l’azione non segue il pensiero, ma ne è compagna simultanea, si riscopre un’umanità talmente intensa da diventare inammissibile.

Protagonista del film è Fernando, ultimo grammatico della Colombia, uno scrittore sconfitto e disilluso che torna a casa dopo trent’anni. E’ un uomo dallo sguardo cinico ma profondo, pronto a rincasare nel proprio nido per morire perché ormai ha visto tutto e ha perso lo stupore, il gusto, la gioia di vivere. Non rimangono che rifiuti. Ha solo bisogno di silenzio, eppure, allo stesso tempo, appare come terrorizzato da quel silenzio che tanto agogna.

Conoscerà-comprerà così Alexis, ragazzo apparentemente innocente, con gli occhi dolci e l’espressione da bambino. Eppure sotto il velo candido di questo giovane amante, si svelano una brutalità e un automatismo omicida senza eguali. Il ragazzo uccide a sangue freddo davanti agli occhi di Fernando: questa catena di omicidi sembra inestirpabile. Non c’è senso di colpa, non c’è alcuna compassione in Alexis eppure – ed è qui il paradosso inaccettabile – sussiste un mondo d’amore. Uccide e ama, ama e uccide, e la sua azione si reitera sempre uguale, priva di varianti: un colpo di pistola tira l’altro. Poi, accanto allo scrittore, si rivela il più tenero degli amanti. D’altronde dietro le raffiche di piombo non c’è una vera e propria premeditazione: tutto avviene in un istante, l’atto di uccidere è velocissimo, svuotato com’è di qualsiasi pathos, di qualsiasi cristiana compassione.

Fernando prima pare allibito, poi lentamente diviene complice del ragazzo. Ma non solo: a ogni nuovo cadavere, sente ritornare in lui l’amore per la vita, l’attaccamento ai propri giorni, l’infinita gioia d’amare. Prima di Alexis era ormai al termine della sua vita, apatico e già caduto, consapevole che il tempo l’aveva preso con sé. Ora sente di poter tornare a vivere e sfuggire al tempo, ma quest’illusione è solo passeggera.

C’è un divario smisurato tra le derive melò di un’affezione e il dinamismo di un omicidio. E’ come se Schroeder, con lo sguardo di un documentarista calato nei gironi infernali, volesse spezzare violentemente gli equilibri della narrazione inserendo il mantra ossessivo dell’assassinio. Che è folle, immotivato, eppure normalizzato, asciutto, quasi “leggero”: non c’è peso del corpo, i cadaveri sono comparse quotidiane, nulla di grave, solo ordinaria routine.

Alle spalle dello scrittore ci sono trent’anni di distanza, una città che è cambiata, colma di luci, gente e nuove storie. Una città che si muove troppo in fretta per un uomo che pare un visitatore da un altro mondo: non c’è più nessuno da cui ritornare, egli è come un fantasma innamorato costretto a dimenticare moralità e civiltà. Al posto della chiesa della carità si ritroverà in un universo perverso e deformato, guidato da una provvidenza, da una giustizia divina che pare capovolta. Il mondo è alla rovescia…ma è normale. Egli è completamente succube di un eterno ripetersi di situazioni, volti, gesti, condannato a un cul de sac infinito. Solo di notte un ronzio tormenta il suo sonno, come se si trattasse di un istantaneo, passeggero risveglio della coscienza.

Schroeder ha l’invidiabile capacità di portare il suo cinema tra la gente, di pedinare il quotidiano, di osservare lo sguardo altrui, perfino il volto uno sconosciuto (in questo senso l’intuizione di raccontare l’intera storia in digitale, ci rende ancora più partecipi di questa presenza/assenza del cinema): non c’è nessuno stucco, nessun abbellimento, nessun tipo di edulcorazione. La camera è per strada, accanto ai suoi personaggi, è in pericolo come loro, sempre pronta a cadere: emerge la fibrillazione inquieta del movimento, mentre la paura che attraversa ogni immagine è il timore stesso di filmare senza alcun tipo di filtro. Ne La Vergine dei sicari tutto è peccato e violenza, non c’è più spazio per la redenzione, non c’è più spazio per Cristo, ma solo per i suoi retaggi invertiti.

Perfino una fuga è ormai impossibile: il protagonista è in catene. E quando il suo giovane amante verrà a sua volta ucciso, un altro ragazzo prenderà il suo posto: in questo meccanismo di sostituzione, di uomini che vissero due volte e di azioni che si ripresentano sempre identiche a se stesse, il nuovo amante è il killer del precedente. Ma egli, come Alexis, ha gli occhi buoni: stessa storia, stessa condanna, con la maledizione del silenzio che ritorna sempre nella vita del protagonista, una volta che ogni affetto è stato spazzato via. Spezzati i cliché, superata la perdita, tornato a casa dopo l’ultima tragedia, lo scrittore chiude le tende, consapevole che un atto d’amore o un atto di morte hanno qualcosa di profondamente comune: l’assoluta, incontrovertibile gratuità.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 10/01/2016

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