La santa

Il noir di Alemà poteva essere molto di più, probabilmente un capolavoro, se si fosse scelta una linea guida definita e consapevole.

"Anche quando disertano l’inferno,

gli uomini lo fanno solo per ricostruirlo altrove"

Emil Cioran

Al di là della laicità dello Stato, l’Italia resta un paese cattolico. Lo dimostra il fatto che agli italiani puoi rubare tutto: il lavoro, la casa, la dignità. Ma non la Santa. Per la loro fede sono disposti a uccidere. Sembra questo l’assunto di partenza di Cosimo Alemà davanti al suo nuovo film, un noir grottesco ambientato nella più profonda provincia meridionale, bigotta e violenta tanto quanto la Sicilia di Non si sevizia un paperino. Qui ci troviamo però in Salento e parlando di criminalità verrebbero in mente le storie di Winspeare, ma i due registi hanno approcci diversi. Il secondo ha fatto del realismo la sua cifra autoriale, il primo invece punta al genere. Alemà è colui che un tempo sarebbe stato definito un buon artigiano, ovvero ciò di cui oggi abbiamo maggiormente bisogno.

La trama è presto detta: quattro individui raggiungono un piccolo borgo nel giorno della festa patronale. La loro intenzione è quella di rubare la statua della Santa la mattina dopo, quando tutti i paesani saranno a dormire tramortiti dall’alcol. Invece qualcosa va storto. La cittadinanza si mobilita repentinamente e dopo avere bloccato ogni via d’uscita dal paese, inizia una spietata caccia all’uomo. Nelle dinamiche dell’azione Alemà non si allontana molto dal suo precedente thriller, At the end of the day. Se però il film d’esordio non poteva non rimandare a Un tranquillo weekend di paura o I guerrieri della palude silenziosa con il suo inevitabile confronto tra uomo e natura, in questo caso il villaggio abitato da cittadini pronti ad autoproclamarsi giudici e boia in nome della fede rievoca i fasti dello spaghetti-western più crepuscolare, basti pensare alle città descritte in Se sei vivo spara e I quattro dell’apocalisse. Eppure il film non è un western: bisogna specificarlo perché Alemà è consapevole delle innumerevoli strade attraverso cui può essere narrata la medesima trama. Ma non bastano un ladro e un poliziotto per fare un poliziesco, così come non è sufficiente abbozzare le potenzialità di una storia per raggiungere un genere specifico. E rincorrerli tutti è dispersivo. In La santa si avverte proprio questo: un coito interrotto. Poteva essere molto di più, probabilmente un capolavoro, se si fosse scelta una linea guida definita e consapevole. Prendiamo la scena del furto: dura due minuti. Essendo un passaggio chiave, un western ne avrebbe dilungato i tempi con dettagli, alternanza di campi, pause. Alemà la filma ugualmente bene ma con altre tempistiche, più simili a quelle del poliziesco. Scegliendo una forma, inevitabilmente ne esclude un’altra perché ogni genere ha i suoi codici, da non confondere coi cliché. Diversamente il dribbling tra un genere e l’altro stempera la tensione e porta spesso all’autogol. Cosa c’entra questo con La santa?

Immagine rimossa. Il punto è che il film non sa bene da che parte stare. La comparsa dei cittadini armati subito dopo il furto appare alquanto paradossale. Più che uomini destati in tutta fretta da un sonno profondo, danno l’idea di essere presenze ultraterrene. Non hanno identità e non si sa come abbiano fatto a organizzarsi così in fretta, eppure sono lì. In Distretto 13: le brigate della morte la scelta funziona benissimo perché dal momento dell’assalto il nemico non è mai mostrato. Quando invece in La santa vengono associati volti e voci agli inseguitori, crolla inesorabilmente ogni connotazione surreale (e questo di conseguenza mette in dubbio la verosimiglianza della scena sopracitata). Il medesimo discorso vale per i toni da commedia grottesca che per funzionare hanno bisogno di essere amalgamati bene e nelle giuste quantità. De La Iglesia ci riesce perché quell’immaginario è radicato profondamente nella sua visione del mondo, Alemà lo accenna solamente e, quando si tratta di un film, non tutto fa brodo. La sceneggiatura è come un’equazione, se si inserisce un elemento nuovo bisogna sempre tenerlo presente perché il risultato torni. Riccardo Brun e lo stesso Alemà hanno peccato di superficialità pure nell’approfondimento psicologico dei personaggi: lo script ci fornisce piccole informazioni su loro, ma alla fin fine l’impressione per ogni battuta è che a parlare sia sempre la stessa persona. Un’altra annotazione sui dialoghi è l’eccesso di retorica, in particolare nel discorso del bandito alla scolaresca. Se da un lato è encomiabile la volontà di fare riflettere con un prodotto nato innanzitutto per intrattenere, dall’altro bisogna ricordare che il cinema non necessita di troppe parole, avendo dalla sua già le immagini.

Ora sono consapevole che, considerato lo spazio dedicato ai limiti a scapito dei pregi del film, molti lettori potrebbero essere dissuasi dal guardarlo e qui avrei sbagliato io come critico. Perché La santa merita il nostro tempo, specie se siamo tra coloro che si lamentano della mancanza di varietà sul mercato nazionale o dell’ingenuità di buona parte delle produzioni indipendenti. Quindi se tu, spettatore, rifiuti di cercare, vedere e diffondere un lavoro valido come il film di Alemà, non hai più diritto di addossare le colpe di tutto a produttori e registi, perché sarà per gente come te se io un giorno dovrò recensire Amici di Maria De Filippi - Il film.

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 30/09/2014

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