La prochaine fois je viserai le coeur

Un'opera fredda e glaciale quanto il viso pulito del suo protagonista. Un film che lavora di sottrazione a discapito dell'empatia spettatoriale.

Ci sono alcune, almeno sulla carta, affinità che legano il regista di Le prochaine fois je viserai le coeur, Cèdric Anger al grande maestro francese del giallo che, nel 1958 con Le beau Serge, dava il via ad un movimento che prese il nome di Nouvelle Vague. Lo stesso Anger ha un passato da critico cinematografico scrivendo sulle stesse pagine dei Cahiers du Cinéma, entrambi prediligono il "polar" come riferimento per narrare le loro storie, entrambi scelgono la provincia francese come sfondo e cornice per le loro storie a tinte gialle. E le affinità per il momento finiscono con questi presupposti iniziali. Il film di Anger non è un polar nel senso più stretto del termine. Questo genere, per essere definito tale, ha bisogno di alcuni elementi strutturali che presuppongono un omicida sconosciuto (o una caccia all’uomo), un’indagine poliziesca ed un colpevole che alla fine viene smascherato attraverso un metodo di racconto che predilige la focalizzazione esterna. Il film di Anger è un polar atipico molto più vicino al genere thriller (to thrill – rabbrividire) che ad altro. Nel thriller noi conosciamo l’assassino ed attraverso questa identificazione arriviamo, seguendo le dinamiche narratologiche proprie della suspense che ruotano intorno ad una focalizzazione interna o di grado zero - dando quindi più informazioni agli spettatori rispetto ai personaggi - a catturare l’assassino dopo aver vissuto in prima persona il suo modus operandi. La prochaine non è propriamente appartenente ad una di queste due identità nonostante le includa entrambe. Il film è ispirato alla storia di cronaca nera che, tra il 1978 ed il 1979, sconvolse la Francia, denominata affaire Alain Lamare. Un gendarme che occupava il suo tempo libero uccidendo giovani donne a sangue freddo scaricandole come carcasse animali su fangose stradine della campagna francese. Uno psicopatico con un volto anonimo, con un lavoro giusto come copertura, incline a penitenze medievali, ossessionato per le armi da fuoco e con visioni di putridi vermi. Una violenza crudele e maniacale, furiosa e tempestata da fulmini di rabbia incontrollata. Un programmatico e razionale odio per l’intero genere umano, un uomo ombra che vive la repressione di una latenza omosessuale. Se nel cinema del maestro francese il putrido si nascondeva all’interno di psicologie borghesi in una provincia francese immobile e stantia, qui il marcio si nasconde dietro a maschere di innocenza e distintivi illibati. Il paesaggio brumoso ed umido risulta essere la giusta cornice per un uomo diviso in due identità distinte, una pubblica, legata al chiarore della legge ed un’altra, molto più intima, legata al desiderio dell’assassinio. Il film di Anger funziona ma non trasporta emotivamente lo spettatore come invece dovrebbe fare, risultando spesso freddo. La furia omicida si stacca prepotentemente dal resto del film in intervalli di spietatezza violenta forte e feroce. Il regista lavorando di sottrazione per l’intera durata del film, sviscera alcune scene che, nel freddo distacco totale, risultano essere ancora più crudeli. L’omicidio, per Anger, è una conseguenza calda, passionale, bollente in un corpo ed in una psicologia algida e spietata (ed è proprio per questa disparità che funzionano alla grande). Ma il problema del film, nella sua totalità, è proprio su questo stesso punto, lavorando molto di sottrazione quel che rimane allo spettatore è l’incapacità di identificarsi in qualcosa di positivo che faccia da contraltare empatico al delirio dell’omicida. Impossibile identificarsi con il carnefice tanto quanto è impossibile identificarsi con una vittima. Lo sguardo spettatoriale adiacente alla freddezza infamante dell’omicida non permette nessuna catarsi consolatoria. Il viso pulito, sorridente e rassicurante di Guillaume Canet è perfettamente adiacente alla follia celata dell’omicida, ricordando in certi momenti (ed in certe espressioni) la schizofrenica follia bipolare dell’Anthony Perkins di Psyco. Una buona prova attoriale in un film che non si spinge mai oltre il limite consentito, non indugia mai troppo sulla violenza fine a se stessa, dilatando i tempi del narrato e non accelerando nell’adrenalinica corsa allo smascheramento finale. Un film lucido e freddo che ti lascia con in mano un pugno di mosche ed un polare disgusto nei confronti del traumatico protagonista principale.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 20/10/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria