La buca

La commedia firmata Ciprì non convince

La Buca, è, sotto ogni punto di vista, un film mancato. Regala qualche sorriso, ma non arriva mai allo sfondamento; presenta dei personaggi stralunati, ma non riesce a dare loro un senso al di là del registro grottesco. Quella di Daniele Ciprì è una rapida incursione nella commedia d’epoca che manca di coerenza e gira a vuoto, con ben più di un tocco di autocompiacimento.

I fatti del film ruotano intorno a un avvocato truffatore, Oscar (Sergio Castellitto), e a un povero diavolo finito in prigione a causa di un errore giudiziario, Armando (Rocco Papaleo). Un caso del destino, qui nelle vesti di un cane arruffato, fornisce il pretesto per un incontro dei due personaggi e dei due mondi. L’avvocato cerca di truffare il povero Armando, ma si rende presto conto che potrebbe lucrare molto di più riaprendo il suo caso e ottenendo un risarcimento dallo Stato per l’ingiusta prigionia.

Siamo lontani dal registro e dai temi di È stato il figlio, il primo lungometraggio diretto da Daniele Ciprì. In questo caso i termini di riferimento sono quelli della commedia garbata americana e di quella italiana monicelliana. Ad un primo sguardo, l’esperimento parrebbe funzionare: nei primi venti minuti il film appare promettente, anche in virtù di una fotografia che ha ben poco dei tipici toni accesi e caldi da commedia. Gli attori sembrano a loro agio, in particolare Castellitto nel suo abito attoriale decisamente sopra le righe. Poi qualcosa si rompe: La buca pare sfaldarsi in tanti rivoli tra loro poco coerenti e la forza del film si disperde. La storia rivela tutta la sua debolezza: non la “debolezza” di una commedia che vuole tenersi ben lontano dall’appunto sociale e dal realismo, ma la fragilità di fondo di una sceneggiatura fatta di riempitivi e di trovate accostate senza una chiara visione d’insieme. Forse il modello era quello, scanzonato ma coerentemente alternativo, della commedia di provincia a la Mazzacurati; in certe sequenze Ciprì segue le tracce del regista padovano e l’andamento picaresco de La sedia della felicità e altri titoli, senza riuscire ad emularne l’ironia e la levità.

La sensazione è che mancasse una chiarezza di intenti fin dall’inizio del progetto, e che tale confusione abbia influito negativamente su tutta la macchina produttiva, a partire dall’interpretazione degli attori. Nonostante il cast adeguato, solo il personaggio di Castellitto raggiunge lo stato di maschera grottesca, intrigante nel suo parossismo. Gli altri non fanno altro che occupare lo spazio e il tempo del film, schierati davanti alla macchina da presa, e in particolare l’inutile figura della barista interpretata da Valeria Bruni Tedeschi. Poiché, in fondo, cosa sarebbe una commedia senza una bella donna e qualche allusione romantica?

Ciprì ha voluto raccogliere un insieme di suggestioni e riversarle in uno stampo troppo angusto: la sua personale concezione di cosa sia e come funzioni una buona commedia. Se l’esperienza della visione è a tratti gradevole, a mancare è un’idea personale, una visione drammaturgica coerente. Ispirandosi e rubacchiando qua e là, il regista e direttore della fotografia riesce a confezionare un omaggio poco approfondito e molto nostalgico alla grande commedia del passato, e poco più. La buca non si regge sulle sue gambe, preferendo poggiare (in modo alquanto labile) sulle spalle dei giganti. Anche la sontuosa fotografia che è il suo marchio di fabbrica, altrove straordinaria, sembra qui pretenziosa e applicata ad libitum, devota al colpo d’occhio fine a se stesso.

Franco Maresco ha saputo esprimere la propria voce autoriale dopo lo scioglimento del sodalizio artistico con Ciprì. Al contrario, quest’ultimo sembra non avere molto da dire al di fuori del feudo della fotografia. L’augurio è che il resto della sua carriera di regista prosegua su binari a lui più congeniali, lontano dal cono d’ombra di Cinico Tv e da ambizioni autoriali premature o, per lo meno, mal riposte.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 21/09/2014

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