Dossier Paul Verhoeven / 4 - Soldato d'Orange

Il primo war movie di Verhoeven mostra tutte le incoerenze e le ambiguità dell’Olanda occupata dai nazisti

Sin dai tempi del suo esordio cinematografico con Gli strani amori di quelle signore, storia dei singolari incontri sessuali di due prostitute di Amsterdam, l’occhio di Paul Verhoeven è stato spesso attirato dall’entropia microcosmica delle vite umane e dal dinamismo che erompe quand’esse vengono stravolte da forze dal grande impatto disgregante. Se nell’ultimo lavoro del regista olandese è un orribile trauma infantile a sconvolgere l’esistenza della protagonista interpretata da Isabelle Huppert e a rendere imprevedibili e narrativamente accattivanti le sue reazioni a ciò che il destino continua a scagliarle addosso (Elle), in Soldato d’Orange la destabilizzazione dello status quo arriva con lo sconquassamento provocato dallo scoppio della seconda guerra mondiale.

Traendo liberamente spunto dall’omonimo libro autobiografico del pilota-spia Erik Hazelhoff Roelfzema, il quarto film dell’autore di Basic Instinct mostra l’impatto dell’occupazione tedesca sul destino di un piccolo gruppo di studenti dell’Università di Leida, concentrandosi perlopiù sulle attività clandestine messe in atto contro i nazisti da Erik (il fedele Rutger Hauer) e Guus (Jeroen Krabbè), due amici ritrovatisi più per spirito d’avventura che per un reale slancio patriottico tra le fila della resistenza dei Paesi Bassi. A differenza dei propri compagni, costretti a scegliere da che parte stare a causa di circostanze ben definite – uno è ebreo e non può far altro che lottare per la sopravvivenza, l’altro ha una madre di origini tedesche e finisce per arruolarsi nelle Waffen SS, un altro ancora crede ciecamente nel valore della Resistenza, salvo poi tradirla quando viene messo sotto scacco – Erik e Guus si lanciano nell’azione militare sulla scorta di una prorompente combattività di stampo romantico, senza neanche dismettere gli abiti da cerimonia che sono soliti indossare nella mondanità delle loro notti aristocratiche. Come se andassero ad un party più che, consapevolmente, incontro a morte e disperazione.

In questo, nonostante la classe sociale d’alto borgo, i due protagonisti sono più simili agli avventurieri di un cappa e spada o di un wuxia che agli eroi, tutti d’un pezzo, dei war movie più tradizionali e conservatori. Non è un caso, infatti, che il film si apra con un assurdo rito di iniziazione alla vita universitaria in cui le vessazioni psicofisiche riservate alle matricole, al limite di una ottusa brutalità fascista, assumono toni grottescamente comici, dando alla violenza una connotazione per certi versi ludica che è facile ritrovare nei suddetti generi. Del resto il rifiuto delle convenzioni, il denudamento delle maschere sociali, l’inevitabilità delle contraddizioni e l’atteggiamento di scherno verso ogni forma d’ipocrisia sono elementi che caratterizzano profondamente tutta la filmografia di Verhoeven e che disintegrano ogni possibilità di operare una distinzione agevolmente superficiale (sempre e comunque ingannevole) tra nobiltà e miseria dell’animo umano, tra giusto e sbagliato, tra vero e falso. L’Olanda occupata dai tedeschi fu tra le nazioni al contempo più zelantemente collaborazioniste (la famigerata Kolonne Henneicke fu responsabile della consegna di novemila ebrei da inviare ai campi di concentramento, in una nazione dove venne sterminato il 75% degli ebrei presenti sul territorio) e coraggiosamente avverse al regime (il caso più eclatante di pubblico dissenso rispetto alle misure antisemite fu il famoso “sciopero di febbraio”). Qui la Resistenza fu anche più lenta a formarsi rispetto al resto d’Europa. Incoerenze ed ambiguità su cui Verhoeven torna insistentemente sia in Soldato d’Orange, dove non ha timore di mostrare i propri connazionali tendere fiori agli invasori che promettevano di sradicare il comunismo, sia, quasi trent’anni dopo, in Black Book, dove subito dopo la liberazione gli olandesi si trasformano da vittime in carnefici, abbandonandosi ad atti di crudeltà estrema nei confronti di chi era anche solo lontanamente sospettato di aver “dormito con il nemico”.

Come a dire che il quadro storico tratteggiato non è soltanto meticoloso ma anche coraggioso. Molti conterranei si sentirono infatti insultati da una rappresentazione così scevra da idealizzazioni, scandalizzati peraltro dalle licenze amorose dei protagonisti. All’estero invece, soprattutto negli Stati Uniti, il film fu molto apprezzato dalla critica, tanto da essere nominato come miglior film straniero ai Golden Globes del 1980 e da vincere il Los Angeles Film Critics Association Award nella stessa categoria, spianando la strada per quella che sarebbe poi stata la produzione americana del cineasta. Si narra che Spielberg fosse stato talmente colpito dalle scene d’azione bellica di Soldato d’Orange da invitare l’autore ad Hollywood per un tour degli studios e da proporre a Lucas il suo nome per la direzione de Il Ritorno dello Jedi. Un progetto mai andato in porto a seguito di un ripensamento da parte dei due movie brats, maturato subito dopo aver assistito agli eccessi di Spetters.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 22/04/2017

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