Dossier Joe Dante / 3- L'ululato

Il manifesto di Joe Dante, tra innovazione e tradizione.

Nel 1981 Joe Dante realizza L’ululato, suo primo grande risultato e tappa fondamentale nel suo percorso di regista. Se Piranha era stato un esperimento dal basso, cormaniano, una parafrasi de Lo squalo di Spielberg e un primo tentativo di dialogo a distanza con il cinema delle grandi major statunitensi, L’ululato mostra una maturità e una consapevolezza teorica fino a quel momento solo accennate. E’ possibile, sembra chiedersi Dante, realizzare alla soglia degli anni Ottanta un film capace di essere contemporaneo senza rinunciare alla tradizione del cinema classico? Si può traghettare l’amore cinefilo per i vecchi B movies in una struttura capace di dialogare con la grande spinta innovativa che il fantastico stava vivendo all’epoca?

Per fare questo Dante, basandosi sull’omonimo romanzo scritto da Gary Brandner e adattato assieme al fedele John Saylers, torna a uno dei grandi miti della storia del cinema horror (qui esplicitamente citato nel momento in cui i protagonisti ne guardano un frammento in televisione): l’uomo lupo. Diretto da George Waggner nel 1941 e penultimo in ordine di apparizione degli storici mostri dell’Universal, L’uomo lupo è il doloroso racconto di un uomo (Lon Chaney Jr.) vittima di una maledizione e condannato a cedere ai suoi istinti animali più selvaggi, una scissione tra bene e male perfettamente in linea con tanto cinema noir del periodo. Disinteressato a raccontare un disagio individuale, Dante recupera dal film di Waggner l’idea di una forma vivente capace di convivere in apparente armonia con gli esseri umani, lupi mannari che vivono tra noi quasi fossero una comunità parallela.

Da sempre istintivamente dotato di una sguardo sociologico curioso e obliquo, Joe Dante trova in questa intuizione la chiave sulla quale edificare tutto il suo film.

L’ululato si apre in uno studio televisivo dove il dottor George Waggner (il nome del regista de L’uomo lupo e primo di una serie infinita di omaggi e citazioni presenti in tutto il film) illustra al pubblico cosa intendiamo quando parliamo di licantropia, indicando nella repressione la molla scatenante degli istinti più aggressivi insiti nella natura umana.

Parallelamente Karen (Dee Wallace), una giornalista televisiva, è sulle tracce di Eddie, un killer che nelle notti di luna piena ha già ucciso diverse vittime. La donna incontra l’assassino in un peep show dove l’uomo verrà ucciso dal provvidenziale intervento di due agenti di polizia. In seguito al trauma riportato da Karin, il dottor Waggner le consiglia un mese di riposo in una casa di cura fuori città.

E’ quindi su uno studio televisivo e sulla ricerca di un killer che si apre il film di Dante, un movimento parallelo che da una parte inscrive L’ululato nella cerchia delle opere che, a cavallo tra Settanta e Ottanta, iniziano a ragionare sull’onnipresenza della televisione nella società contemporanea (Zombi, che ha un incipit simile, è del 1978, Poltergeist è del 1982, Videodrome del 1983), dall’altra inscrive il film nel filone di thriller metropolitani che proprio in quegli anni restituiva l’immagine di città in preda alla violenza e al caos (Cruising di Friedkin). Nella sequenza d’apertura il direttore della fotografia John Hora lavora con intelligenza sul fascino delle luci notturne, delle squallide insegne al neon, la descrizione di un mondo iperrealista capace di occultare con intelligenza gli imprevedibili sviluppi del film.

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Joe Dante parte quindi da molto lontano nel suo percorso di avvicinamento al fantastico e nel tentativo di declinare le suggestioni del cinema horror secondo una consapevolezza aggiornata ai tempi.

La scoperta di una comunità di licantropi adiacente alla nostra civiltà - la casa di cura e i boschi limitrofi dove si rifugiano le creature sono lontani poche ore di macchina dalla città - diventano lo specchio di un orrore inimmaginabile perfettamente calato tra di noi. Rispetto alle famiglie di reietti raccontate da Hopper o Craven nel decennio precedente, qui non abbiamo più lo specchio deforme della nostra civiltà ricontestualizzata nel cuore profondo d’America, ma una prossimità agghiacciante resa ancora più minacciosa dalla presenza del dottor Waggner, vero e proprio tramite tra due mondi che altrimenti si potevano ancora pensare illusoriamente separati. Non bastasse l’intelligenza con la quale Dante costruisce spazialmente il binomio comunità/città, L’ululato recupera dal mito dell’uomo lupo l’idea del contagio e della diffusione della licantropia aggiornandola alla paranoia da virus e da contaminazione che tanto cinema coevo andava esplorando. Il mito dell’uomo lupo rivive quindi in un contesto apparentemente distante, il thriller metropolitano anni Ottanta, e adatta le proprie risorse teoriche alla descrizione di un’America incapace di fare i conti con il suo lato più aggressivo pronto a deflagrare a ogni istante: un rimosso che prende le forme anche di una sessualità istintiva, primordiale, incarnata qui da Marscha, una donna lupo protagonista assieme a Billy, il compagno della protagonista, di un magico rapporto sessuale illuminato dal chiaro di luna e dai bagliori di un grande falò.

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Parlando de L’ululato è doveroso soffermarsi sul contributo che il film di Joe Dante ha dato al body horror e all’essersi per questo conteso, con Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, il primato di aver mostrato per primo la trasformazione in diretta di un uomo in un lupo.

Ma se nel film di Landis, uscito pochi mesi dopo quello di Dante, la trasformazione realizzata da Rick Baker è un’impressionante mutazione tra due stati – umano/animale - che scivolano l’uno dentro l’altro, quella di Rob Bottin per L’ululato è un ibrido inquietante dove – coerentemente con l’idea sotterranea del film – vediamo un uomo trasformarsi in una cosa a metà tra un uomo e un lupo, una vera e propria altra razza che porta il film più vicino al Brundle/mosca di Cronenberg o a La cosa, sempre realizzato da Bottin.

Le differenti modalità nel mostrare la mutazione, vero e proprio fulcro di entrambi i film, dice molto su quanto siano distanti tra loro L’ululato e Un lupo mannaro americano a Londra.

Quello di Dante, regista teorico e consapevole, è una riflessione sul senso di alterità culturale oltre la superficie del visibile e, insieme, un tentativo di rendere nuovamente produttiva la figura dell’uomo lupo all’interno di una struttura inevitabilmente a strappi ed eterogenea; il film di Landis, insieme a Spielberg il regista della New Hollywood meno interessato all’evidenza del discorso teorico, è un racconto perfettamente solido, pieno di ritmo e umorismo, un capolavoro di omogeneità stilistica e narrativa.

Quanto per Dante la trasformazione sia, rispetto a Landis, solo un pretesto per un discorso più complesso appare evidente nel finale. Karen, ormai destinata a trasformarsi in lupo, decide di mostrare la mutazione in diretta televisiva mentre sta conducendo il telegiornale, in modo da svelare al mondo l’esistenza della comunità di licantropi. Ma il risultato, paradossale e inquietante, è che nessuno tra il pubblico le crederà, convinto di trovarsi davanti ad un trucco cinematografico.

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L’ululato termina quindi nello stesso luogo dell’inizio, lo studio televisivo, sul medium retoricamente indicato come capace di mostrare la verità (Karen è una giornalista) e che invece arriva qui al grado massimo di opacità, all’impossibilità di mostrare l’evidenza delle cose.

Aldilà dell’evidente ironia (la donna aggredita mentre il marito guarda in televisione Ezechiele lupo), Joe Dante con L’ululato mette in scena la saturazione dell’immaginario collettivo, l’incapacità da parte del pubblico di credere a una mutazione in diretta televisiva. Figuriamoci al cinema. La risposta che il regista fornisce a questo impasse è L’ululato stesso, l’ostinazione nel continuare a lavorare la forma nostalgica di un cinema/giocattolo colto e infantile, proprio nel momento in cui il cinema, inteso come rito collettivo, fascinazione e rapimento estatico, inizia negli anni Ottanta a mostrare le prime crepe.

Un percorso che segnerà tutta la filmografia del regista, destinato a farsi sempre più una voce solitaria e a essere progressivamente allontanato da Hollywood.

L’ululato è il manifesto programmatico di Joe Dante e insieme la sua prima geniale dichiarazione di resa e di sconfitta.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 04/11/2014

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