Dossier Bertrand Bonello / 1- Le pornographe (Il pornografo)

Un regista porno fuori tempo alla ricerca del sentimento, contro la meccanica del cinema e della vita. La sua resistenza è un fallimento consapevole, ma contiene una traccia d’amore

«Nel ’68 girare un film porno era un atto politico», dice il pornografo Jacques Laurent. Ora non lo è più, come attesta l’incipit di Le pornographe (Il pornografo): racconto che si apre in un cinema a luci rosse inquadrando gli spettatori, a cui segue l’immagine della superficie piatta di un lago. L’ideale controcampo di chi guarda è lo schermo dell’acqua: da una parte il pubblico, ma dall’altra non c’è il film hard bensì l’immobilità della natura. Il porno oggi non significa altro da se stesso: l’immagine è ferma.

Secondo lungometraggio di Bertrand Bonello dopo Quelque chose d’organique, Le pornographe (2001) inscena la parabola di Jacques Laurent: regista porno d’autore, fuori tempo e luogo, che torna sul set per necessità economica. Cineasta sessantottino che respinge la rappresentazione del sesso come meccanica ma vuole rintracciarvi il sentimento, quello che ha perso nella vita per i rapporti disgregati, sia con il figlio lontano sia con la moglie estranea. Egli si chiama JL come Jean-Pierre Léaud che lo interpreta, in una scelta che sancisce l’unione di attore (lui stesso) e regista (il suo personaggio) e diventa metonimia della messinscena, con Bonello che muove consapevolmente l’attore/regista all’interno della rappresentazione. Léaud, icona nouvelle vague, qui col suo corpo maturo e provato supera quegli anni per collocarsi nel contemporaneo “post-tutto”: allora il movimento vorticoso di Doinel trovava sbocco sulla spiaggia, oggi il percorso del pornografo è un girovagare vano che si aggroviglia su di sé e ne prende atto.

L’intreccio non avanza in progressione lineare ma divaga, segue l’oscillazione interiore, passa da uno stralcio all’altro senza procurarsi l’alibi del raccordo narrativo: basti vedere come, a un tratto, la cinepresa passa di padre in figlio cambiando l’oggetto di osservazione. Ondulante e frastagliato, l’occhio di Bonello inquadra il ritorno sul set di Jacques, che gira un film alimentare e ne sogna un altro mai girato, L’animal, caccia alla volpe/donna che si materializza nella sua testa alla maniera del PornoTeo Kolossal pasoliniano. Nel frattempo sostiene due confronti primari, con la moglie e il figlio.

Joseph (Jérémie Renier) incarna la nuova generazione, la gioventù degli anni zero, che si pone concretamente lontano dalla stagione rivoluzionaria e prova a mantenere l’impegno, tra volantini e collettivi, ma ottiene una coazione a ripetere sempre più formale e vuota di senso. E questo, il divario tra sostanza e forma, certifica la distanza tra padre e figlio, una distanza politica che slitta sul piano sentimentale e permette un riavvicinamento solo parziale, sempre limitato.

La moglie Jean (Dominique Blanc) introduce alla dissoluzione del legame amoroso: la rottura di Jacques col mondo è intransigente e definitiva, una rottura totale che passa per la separazione della propria donna. Lasciare Jean è un atto dovuto, fatto inevitabile che riflette la fine dell’ideale nel concreto: Jacques non porta ragioni alla base di un gesto mai pienamente spiegato, che rileva l’impossibilità di stare insieme qui e ora, il non senso di una coppia e il patetico nel tentativo di trattenersi (Jacques a Jean: «Sei ridicola»).

E’ un film sull’avvenuta meccanizzazione del pensiero e dell’azione, Le pornographe, sul porno e dunque il cinema ridotto a mero ingranaggio: Jacques, nella sua ricerca del sentimento, compie un atto di resistenza ma è un’opposizione fallita e consapevole di esserlo. Quando la produzione chiede l’esecuzione routinaria di una scena madre egli non si oppone, non risponde nulla. In questo scenario, certificato il tramonto di un mondo, Jacques si augura soltanto di mantenere una stabilità fisica: l’unica mossa possibile è la conservazione dell’integrità concreta, la difesa del proprio guscio, l’auspicio di provare meno dolore domani.

Eppure, in una malinconia così radicale, in questo muoversi sull’orlo dell’abisso guardando al fondo, c’è anche qualcosa che non torna, un leggero scarto che innesca il dubbio: malgrado tutto Jacques ha una profonda fiducia nell’immagine. Conosce la sua sconfitta, ma non accetta la ripetizione seriale e lo scorrere della vita automatico: per questo dirigendo l’attrice porno Ovidie cerca il soffio, prova a costruire un orgasmo del cuore. E per questo Bonello, nel suo ostinato filmare, per interposto pornografo indirizza le inquadrature verso la formazione del sentimento: «L’ultima scena è sempre una scena d’amore» (Jacques). Un amore perdente ma che emerge tra le righe, come si addice a un regista, ovvero attraverso l’immagine.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 10/06/2016

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