Dallas Buyers Club

Trenta. Questi sono i giorni di vita che rimangono a Ron Woodroof, cowboy dai modi rudi e dalla parlata volgare che cavalca per le provincie del Texas anni ’80: di mestiere fa l’elettricista e sbarca il lunario in giri di scommesse. Si muove all’interno di una comunità omofoba e ristretta negli anni in cui l’HIV si sta diffondendo, ma quella per Ron è una cosa da checche. Lui si gode la vita, adora l’effimero, l’alcool e le scopate facili. Un giorno diverso da tutti gli altri gli viene comunicato che è infetto dall’HIV e che ha il tempo contato. Trenta. Non trenta, molti di più. I giorni di vita si riveleranno anni e Ron, dopo una serie di esperienze negative con l’economia ospedaliera e le case farmaceutiche, deciderà di arrangiarsi da solo per rintracciare una cura. Troverà un farmaco che “non è illegale, non è solo stato ancora approvato“: di qui le contraddizioni enormi in seno alle industrie farmaceutiche e tutte le implicazioni morali e politiche che un film di denuncia come questo implica. Woordrof finirà col creare un suo centro dove aiuterà gli altri infetti con un farmaco alternativo.

Il film di Jean-Marc Vallée appare, dall’inizio alla fine, un film classico fino al midollo: struttura in tre atti, percorso di trasformazione e cambiamento del personaggio, scoperta di sé e superamento delle proprie barriere. Riassunto così potrebbe sembrare fin troppo schematico, ma il modello di cinema di cui Dallas Buyers Club fa parte non lascia spazio a dubbi o incognite: bisogna avvertire la morte sulla propria pelle per poter rinascere. Bisogna soffrire per poter conoscere e scoprire l’alterità. Non si mette in dubbio qui l’onestà dell’operazione, quanto piuttosto la cifra stilistica, o meglio la messa in scena, il suo essere un tipo di cinema fuori tempo massimo: a partire dalla patina granulosa che richiama il cinema politico anni ’70 senza possederne il conflitto esistenziale né lo spessore morale. Quella corrente, a cui di continuo si fa riferimento, non era solo una messa in dubbio di sé e del proprio mondo ordinario, ma era anche la consapevolezza dell’impossibilità di una trasformazione radicale: era più complessa nella dimensione in cui rimaneva sempre una traccia, un residuo del mondo ordinario, dell’esistenza di prima, all’interno della nuova vita. E quella traccia spesso finiva per ritornare in superficie.

Qui invece il cambiamento è radicale, si crede poco perché si cambia troppo. La cifra stilistica, d’altronde, è quella di una macchina a mano che passa da locali notturni ad ospedali, dal Giappone agli interni asfittici dell’abitazione di Ron. E’ interessante notare come – ancora una volta – si associ l’uso della macchina a mano a una presunta ipotesi di realtà, come se solo il movimento sporco potesse catturare il susseguirsi degli eventi, il peso storico e il dilemma morale della storia vera (di contro verrebbe da chiedersi quanto sia fondata la concezione che riduce la macchina fissa a un’idea formale di costruzione, di presunta opposizione alla vita). Il problema, semmai, è che Dallas Buyers Club è un film di eccedenza narrativa, non il contrario. Nelle sue due ore tirate di durata, Vallée infila una serie infinita di dinamiche e situazioni che finiscono per creare diversi problemi di ritmo. E’ come se per far orientare il pubblico nella sua denuncia dovesse servirsi di un surplus di strumenti narrativi: dall’immancabile relazione con la dottoressa ai viaggi esteri e ai (troppi) finali che non fanno che ribadire la stessa accusa. Qui non si vuole svalutare il film in toto, perché sarebbe ingiusto: non si tratta di un’opera furba, né ruffiana, né facile, come poteva accadere. Il discorso è un altro: significa, piuttosto, chiederci perché ancora dopo quarant’anni si sia rimasti ancorati a un modello di narrazione e messa in scena ormai superato e stantio. Questa tendenza alla buona fattura, al fatto che un film debba prima di tutto funzionare, invecchia l’opera ancora prima di nascere.

In conclusione sarebbe ingiusto non aggiungere qualche parola sul cast: Matthew McConaughey (sulle cui spalle si regge l’intero film) è sempre più impressionante nella sua dolente versatilità. La trasformazione fisica che subisce è notevole. Insieme a uno straordinario Jared Leto sono gli unici elementi che presentano una riflessione sul corpo, sul suo inevitabile scheletrizzarsi fino alla fine dei giorni. E sul tempo, un tempo che manca, che siano trenta giorni, sette anni o molto di più. Di fronte a loro Jennifer Garner è il punto più basso del film: statica e imbalsamata come mai, è una bella statuina, pura, sterile funzione narrativa.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 16/08/2014

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