Ave, Cesare!

Manifesto teorico di un cinema insopportabile

La domanda che attraversa tutto Ave, Cesare!, e che a tratti illude gli spettatori più insensibili alle acrobazie grottesche dei due registi, riguarda la fede. Una fede che però non ha niente di metafisico, se non come spunto di partenza. Il pretesto si offre dall’osservanza religiosa del protagonista Eddie Mannix, fixer di un grande studio hollywoodiano chiamato a risolvere qualsiasi problema che possa intaccare l’immagine della propria azienda, che sia uno scandalo a luci rosse oppure un intoppo nella lavorazione di un film. Proprio da un set si origina la storia. Non uno qualsiasi ma un grande kolossal biblico alla Ben Hur, incentrato sulla conversione di un centurione ai piedi della croce. Ecco allora che la dimensione privata, personale e quella lavorativa si incontrano, ovviamente nel terreno della finzione, nel cuore della Hollywood anni 50, ovvero in uno dei periodi più fecondi nella storia della settima arte. Quando ancora il cinema riusciva ad incidere come nessun altro mezzo di comunicazione nelle coscienze e nell’immaginario delle persone. Una questione di fede, appunto. Non diversa da quella del nostro Eddie Mannix, che non a caso nel finale sceglie di rifugiarsi nella finzione del cinema. L’unica salvezza possibile in un mondo dominato, come sempre nell’opera dei fratelli Coen, dal caos e dal non-senso. Qui rappresentato, il che sembrerebbe paradossale, anche dai frammenti dei film in lavorazione, dal musical alla Gene Kelly, al noir, dal western, al melodramma aristocratico, che arrivano a contaminare il film stesso fino alla sovrapposizione dei piani. Questi frammenti, alcuni riusciti, altri decisamente meno, sono montati come fossero clip di una playlist di youtube. Citazioni di altre citazioni. Esempio all’ennesima potenza del cocktail post-moderno che i due di Minnesota servono al pubblico da tre decenni con alterne fortune. A tratti verrebbe da pensare ad una sorta di versione aggiornata di Cantando sotto la pioggia, nell’ipotesi di un film che possa contenerne tanti altri al suo interno, carrellata in una storia del cinema altra e già passata proprio come poteva esserlo il muto per il cinema anni 50. Non a caso Cantando sotto la pioggia fu realizzato proprio in questi anni. Esattamente nel 1952. Ovvero giusto un anno dopo l’ambientazione dei Coen. La differenza ovviamente la fa il grado di consapevolezza e d’amore dei cineasti. La visione dei Coen, decisamente più bonaria del solito (ma non al punto da apparire sinceramente nostalgica), risulta in ogni caso insopportabilmente cinica (ma non al punto da destabilizzare). Come quella di uno che ne ha già viste tante e che conosce fin troppo bene il finale delle storie. E allora non ci prova nemmeno a sporcarsi le mani, a rischiare ancora, come fanno invece tutti gli innamorati che si lasciano alle spalle delusioni, paure e cicatrici del passato. I Coen al contrario preferiscono anticipare le mosse. Mettere sempre una distanza (la voce fuori campo, il filtro grottesco), addomesticare la scena fino a congelarla, mummificarla, come fosse un teatro di marionette o, come in questo caso, un museo delle cere da quattro soldi.

Che sia questo il vero futuro minacciato dagli sceneggiatori comunisti? Chissà cosa penserebbe uno come Mannix della visione dei suoi creatori demiurghi. Forse niente di buono, ed è in fondo proprio per questo che è stato creato: ovvero per alimentare il più a lungo possibile l’illusione del cinema, portare la croce anche per i propri autori, e credere al posto loro. Farlo negli anni Cinquanta è decisamente più facile che farlo oggi. Già nell’ambientazione si nasconde la sconfitta. Nell’idea cioè di una fede da far risalire addirittura a settant’anni fa, in un mondo irrimediabilmente perduto, che gli autori non sono in grado di vivificare. Ma non per una distanza incolmabile. Ma più semplicemente per mancanza d’amore, di prossimità. Il solo motore in grado di far vivere, palpitare, sentire le storie. La vera domanda che dovremmo porci allora è se davvero si possa fare un film sulla fede senza credere a niente. E se il loro film fosse un’inconsapevole richiesta d’aiuto?

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 16/03/2016

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