Mia madre fa l'attrice

Dopo Noi non siamo come James Bond, Mario Balsamo effettua una nuova incursione nella terra di nessuno tra finzione, documentario e diario biografico. Il risultato è toccante, sincero, cinefilo.

Il cinema come lente o prisma del reale. Il cinema come microscopio / caleidoscopio della vita e del senso. Mia madre fa l’attrice, ultimo lavoro di Mario Balsamo, è un oggetto cinematografico e cinefilo che dialoga con il mondo privato del regista, lo interpreta e lo mette in gioco con il pubblico e per il pubblico, in una tessitura che affascina per le sue sottili ambiguità.

Mia madre fa l’attrice è costruito attorno a un legame forte e ambiguo: Balsamo e la madre sono profondamente legati, eppure non si capiscono e non hanno mai comunicato fino in fondo. La madre, Silvana Stefanini, ha avuto una breve carriera nel mondo del cinema, in particolare nell’oscuro film degli anni Cinquanta La barriera della legge. Attraverso la ricerca di questo film perduto e l’idea di far recitare di nuovo alla madre il ruolo di molti decenni prima, Balsamo racconta un processo di riavvicinamento tra i due. Riavvicinamento sempre parziale, mai catartico, sempre rimandato; eppure, in questo gioco tra madre e figlio, tra squarci di tenerezza e distanziamenti necessari, lo spettatore coglie la bellezza di un legame e di una storia a cui solo il cinema poteva dare giustizia.

La ricerca di Mario Balsamo, dopo il precedente Noi non siamo come James Bond, segue ancora la strategia dello straniamento ludico e della cinefilia intesi, forse, come necessario filtro per guardare il volto del Reale, della sofferenza e della irriducibile complessità del mondo. Se in Noi non siamo il Reale assumeva le fattezze della malattia e il "velo di Maya" del caso era la voce della segreteria telefonica di Sean Connery, qui è il cinema stesso e l’ostentazione del suo linguaggio – della sua artificialità e opacità – a filtrare il mondo e a ridurre gli spettri a mere ombre da guardare negli occhi.

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Balsamo sottolinea la falsità della messa in scena: al di fuori della cornice di una storia molto classica (la scoperta di un vecchio film e il piccolo riadattamento di un Viale del Tramonto all’italiana), il regista ci inonda dei trucchi della settimana arte: le scenografie artificiali, le proiezioni sgangherate di paesaggi dietro scene di guida in automobile da teatro di posa, gli outtake, gli sguardi in macchina, i commenti extradiegetici a margine e svariati altri accorgimenti allontanano il rappresentato da qualsiasi parvenza di trasparenza documentaria e avviano, semmai, un gioco partecipativo con lo spettatore, complice di questo metacinema anarchico e sgangherato. Se si aggiunge la scelta di un registro comico e l’introduzione di materiali d’archivio (un filmino degli anni Novanta nel quale il regista confessa alla madre di voler fare un film su di lei), è chiaro che Mia madre fa l’attrice assume i contorni di un prisma nel quale perdersi e nascondersi. Prisma è la parola chiave: se prendessimo un film-specchio di Alina Marazzi e ne ricavassimo un negativo ideale, eppure vicinissimo, troveremmo il cinema labirintico e prismatico di Mario Balsamo. Forse l’unica possibile dimensione per una verità così intima e ingombrante, come quella che Balsamo vuole dischiudere tra le (tante) parole e le (oscure) immagini.

Gli spettri, dissacrati dalla finzione, sono ridotti ed esorcizzati, ma non scompaiono mai dai margini dell’immagine e del racconto. I fantasmi della vecchiaia, dell’impotenza di fronte alle abitudini e le asperità degli affetti famigliari e della morte (quella del padre e quella, forse lontana ma certo palpabile, dell’anziana madre) sono i convitati di pietra di un film godibilissimo e divertente, volutamente sporco nei suoi tratti, eppure disarmante nella sua sincerità di fondo.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 23/11/2015

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