Happy End

L'irraggiungibile lieto fine di Micheal Haneke

Smartphone, dispositivi video specchianti, maneggevoli, rapidi. Occhi e sguardi. Obiettivi ed obiettività. Il cinema d’autore non può esimersi nel considerarli tali. Telecomandi che ci accompagnano, che catturano e condividono, rendendo vera per gli altri la nostra porzione di realtà. Come i fantasmi di Assayas, nelle presenze ectoplasmatiche che condividono con noi i loro momenti di trascendenza biologica, dei medium o dei portali di parole tardive, non dette, che ci giungono attraverso chat, attivandosi sul nostro ricordo, non più in grado di riconoscerli come nodi di una rete che riconosciamo, sono gli utenti del nostro passato, intangibili ma attivi, quindi per noi vivi.

Il procedimento di cattura (e codifica) dell’immagine digitale è un argomento che la stessa autorialità, cinica, chirurgica e spietata di Haneke non può esimersi dal considerare. Fantasmi di una classe sociale, l’alta boghesia imprenditorializia, che non emettono luce, nessun bagliore nei corpi dei personaggi di Happy End di Haneke, nessun corpo lucente che attaversa il campo dell’inquadratura di uno smartphone in grado di risolversi in un lieto fine. La densità che svanisce, il peso specifico dell’umanità che evapora nella carne di una classe sociale in lenta dissoluzione. Il nucleo famigliare tratteggiato da Haneke non può avere un lieto fine in quanto non ha una corposità. Il dispositivo è un ricettore di trame cellulari che inganna i riceventi delle informazioni a cui pretende di trasmettere, rendendo ciechi i fruitori, noi stessi, gli utenti ("Crediamo di essere connessi con il mondo, ma tutte quelle informazioni ci toccano in superficie, non sono la realtà, ma un’illusione”, ci ammonisce Haneke in un’intervista rilasciata per Il Cinematografo). Regole ed apparenze, soldi e business, capacità decisionale imprenditoriale che distacca eticamente il privilegio sociale ed economico (hic et nunc immodificabile) dalla fuga di una popolazione (la Storia), che non viene invitata al banchetto se non per un risentito gesto anarchico, acquisendo la stessa distanza che incorre tra un candido ristorante di mare e la rude verità, e diaspora, di Calais. La famiglia borghese per Haneke è una casa senza pareti a cui è rimasta solo la struttura solida, e classista, dell’intelaiatura. Uno spazio attraversabile nel quale sono scomparsi i muri etici, un’architettura posseduta dal Genius Loci, interpretato dalla figura morente ed inferma di Jean-Louis Trintignant, che viene osservato (e realizzato) attraverso il nuovo sguardo, esterno ed oggettivo, di una bambina (Fantine Harduin), la nipote, figlia del precedente matrimonio di Thomas (Mathieu Kassovitz), fratello di Anne (Isabelle Huppert), e figli entrambi del vecchio ricco; figura patriarcale, questa, simbolo di una classe sociale mutata, a cui è sfuggito di mano l’happy ending tanto voluto e per ceto certo, a cui è rimasto solo il desiderio di morire lasciando alle future generazioni la pretesa social di documentazione audiovisiva. L’evanescenza delle figure e la vaporosità nella ricerca della cattura dell’ineffabile, fanno del film di Micheal Haneke il più inconsistente della sua filmografia. La tesi di fondo, quella spietata lucidità con cui rappresenta le relazioni umane, ben presente in tutta la sua filmografia, qui inciampa lasciando un vuoto di spazio cinematografico, di corpo attoriale, di narrazione drammatica. Il film, il più trasparente di Haneke, non ha (perché non deve avere) la forza della sottolineatura, della svelata necessità di disturbare, ma mette in scena il vaporoso vuoto, il nulla, che scivolando dentro se stesso da un’epoca ad un’altra, si scioglie morendo. Il film muta in una forma ancor più superficiale, epidermica, nonostante sia proprio l’identità-corpo la prima a scomparire. Happy End, che potrà non essere apprezzato e che definirei afono, nella sua voluta assenza crea una rigorosa eco di necessità di ascolto, che si infrange contro un muro costruito dall’incomunicabilità, dapprima di un determinato ceto sociale (come lo era ieri con Bunuel o con Antonioni, lo è anche oggi) ma che poi si espande diventando un vuoto globalizzante: social.

Risulta indicativo notare come due dei più grandi film d’autore francesi dell’ultimo anno hanno a che fare con una ricercata visione dell’infilmabile, un’indagine dell’immagine fantasma, dell’utenza nascosta, di una classe sociale filtrabile attraverso un nuovo sguardo, cinico e spietato anch’esso in grado di far evaporare le figure; film entrambi questi orientati verso la ricerca stilistica tesa ad individuare la minfestazione dell’immagine corporea mancante, che tentano di catturare il fantasma nella rete, adottando narrazioni e temi narrativi che hanno a che fare con un nuovo stile che potremmo definire gotico digitale. Ognuna di queste prove autoriali possiede ovviamente un’identità ben definita, che è parte integrante dello sguardo del proprio autore, ma che in entrambi i casi fa del dispositivo un mezzo per veicolare l’identitaria visione artistica del mondo. Se per Assayas il device è un microfono per Haneke è la lama di uno specchio infranto. E’ la lenta agonia verso un destino immodificabile del tenente di Gioco all’alba, la discesa nella follia del consigliere Robert in Fuga nelle Tenebre, è il resoconto del cattivo finale fieramente schnitzleriano che Haneke riserva al capofamiglia; e se nel primo autore il resoconto mortifero investiva il crollo dell’Ancien Régime, in Haneke, il cattivo finale crea un ponte tra il ricordo di un secolare ceto sociale suicida e l’apatia distanziatrice del nuovo sguardo della Net Generation. Un film Happy End sul crollo silenzioso di un’era in un’altra, di una rappresentazione sociale storicizzata in continuità (mutatis mutandis) con una rappresentazione stilistica digitalizzata; un film da schivare per non correre il rischio di rimanere sospesi nel vuoto d’aria che si viene a creare, per evitare di arrivare - comprensibilmente - a non apprezzarlo; un film certamente minore ma assolutamente necessario per tracciare un fil rouge d’intenti che attraversa l’intera sua filmografia: dalla trilogia più densa della glaciazione ad Happy End, un litotico cattivo finale che, avendo già disciolto i corpi, riesce a trattenere solo il freddo di nuvole d’identità tracciate in contorni di esseri che non sono mai stati umani.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 26/11/2017

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