Highest 2 Lowest
La terza volta coi remake di Spike Lee è un passo avanti rispetto a "Old Boy" (peggio era difficile fare), ma indietro rispetto a "Da Blood of Jesus". "Highest 2 Lowest" è un discreto rifacimento, dalla resa altalenante, di un capolavoro che incombe.
Nella sfida tra Spike Lee e la pratica dei remake, Highest 2 Lowest rappresenta la “bella”, lo spareggio, dopo la sconfitta di Old Boy (probabilmente il nadir della sua carriera registica) e la difficile, ma più che meritata, vittoria ottenuta con Il sangue di Cristo, reinterpretazione di Ganja & Hess di Bill Gunn. Certo, si potrebbe affermare che Spike non rifaccia se non capolavori e, in effetti, anche per la sua terza rivisitazione, il prototipo di partenza è un vero e proprio chef d'oeuvre: quel Anatomia di un rapimento che Akira Kurosawa, nel lontano 1963, adattò dal romanzo di Ed McBain Due colpi in uno. Il titolo originale giapponese – Tengoku to jigoku, letteralmente Paradiso e inferno – diventa quindi Highest 2 Lowest, un'espressione idiomatica che equivale al nostro “dalle stelle alle stalle”. Il protagonista, David King (come nel libro di McBain), alle stelle ci è già arrivato, sia perché in passato ha raggiunto l'apice della sua carriera di discografico (un'invenzione del copione di Lee, nel libro e nel primo adattamento il protagonista è un imprenditore calzaturiero) sia perché questa stessa carriera è consistita nello scoprire talenti della musica e farle diventare “star”. Le stalle invece le ha conosciute quando ha venduto le quote di maggioranza della sua etichetta, la Stackin' Hits Records (il cui suono ricorda più la Stax che la Motown, e la Stax fu fondata da due bianchi, Jim Stewart ed Estelle Axton, ragion per cui il nome di finzione scelto sa un po' di riappropriazione), che ora è deciso a riacquisire comprando, con un grosso sforzo finanziario e altrettanto rischio personale (l'ipoteca sull'attico in cui vive), le quote di un “fratello” socio (ancora riappropriazione identitaria).
Il remake è abbastanza fedele all'originale kurosawiano, ma rappresenta anche un grimaldello con il quale il moralista Spike Lee salda conti interni alla comunità afroamericana, come fa praticamente da Aule turbolente, dove mette al centro l'intrarazzismo e le scelte di alcuni afroamericani che paiono compromettere le battaglie per i diritti civili. A volte sembra di ascoltare il Booker T. Washington interpretato da Moses Gunn in Ragtime di Milos Forman, che, rivolgendosi all'esasperato Coalhouse Walker jr., vittima di violenza gratuita da parte di un pompiere volontario nonché reso vedovo da un poliziotto, gli dice, tra le altre cose, che «ora, l’esempio di mille uomini neri onesti e industriosi non basta a riparare il danno di uno come lei». Come se parlasse dalla Negroland di Margo Jefferson, Lee stigmatizza i nuovi rapper privi di orgoglio di razza, attenti solo ai soldi (ma anche i soci dell'etichetta sembrano esserlo), e auspica un ritorno alle origini, all'anima (soul, appunto) della musica nera (la performance finale).
La lotta di classe posta alla base del romanzo di partenza (nonché di quella che è forse la sua trasposizione apocrifa ma più fedele nello spirito: Ransom di Ron Howard) e del film giapponese, qui viene messa da parte in favore della fratellanza (tra David King e il suo autista c'è molto di più che un semplice rapporto di lavoro) e dell'orgoglio nero. Tuttavia, al film non manca la lucidità per deviare in modo significativo dalla storia di partenza. Mentre nel prototipo di Kurosawa (così come nel romanzo di Ed McBain, in cui il focus è posto sull'iconico personaggio del detective Steve Carella, 87mo distretto) la seconda parte consiste in un racconto quasi documentaristico delle procedure investigative della polizia, qui i neri devono fare da soli perché la polizia (un nero, una nera e un bianco) non dà seguito all'intuizione del protagonista e preferisce angustiare il ragazzo rapito per sbaglio. E se Kurosawa, come in tutti i suoi lavori urbani, non vede speranza, Spike Lee sì, anche perché per lui la città non è una trappola come la Tokyo del prototipo: New York è bella anche se pericolosa. Il regista di Malcolm X continua a pensare che l'importante sia “fare la cosa giusta” in un mondo che non lo è, in una società in cui “l'attenzione è la moneta più importante”, la privacy una chimera, e il successo è direttamente proporzionale ai guai giudiziari di un rapper (“Yung Felon libero” è la scritta sui cartelli che i fan espongono fuori dal tribunale). E David King decide di lasciare le stelle per tornare alle stalle della famiglia, qualcosa di più piccolo, ma che abbia la musica al centro (ed è un piacere che il brano cantato da Aiyana-Lee sui titoli di coda sia una cover di Prisencolinensinainciusol di Adriano Celentano) mentre Kingo Gondo, in Anatomia di un rapimento, si vedrà pignorati i beni e non verrà premiato per l'umanità mostrata.
Dal canto suo, Denzel Washington gigioneggia, ma non più di quanto faccia Lee con la macchina da presa, soprattutto nel blocco centrale (quello della consegna del riscatto, al ritmo di una scatenata salsa durante il Puertorican Day del Bronx). Per entrambi, in fondo, si tratta di un viaggio attraverso una galleria personale di ricordi (la musica di Mo' Better Blues, il basket e il rapporto padre/figlio di He Got Game), e i due lo affrontano con quel tocco di compiacimento che a tratti può infastidire per il suo mood da boomer che ammanta di nostalgia il passato senza riconoscere qualità al presente. Per tutti questi motivi la terza volta coi remake di Spike Lee è un passo avanti rispetto a Old Boy (peggio era difficile fare), ma indietro rispetto a Da Blood of Jesus. Highest 2 Lowest è un discreto rifacimento, dalla resa altalenante, di un capolavoro che incombe.