Remake
Il capolavoro di Venezia 82, una rappresentazione struggente del dolore e del fallimento e dei limiti di un padre, e assieme una dissezione pubblica del proprio compulsivo bisogno di mediare per percepire sé stesso e gli altri e il mondo tutt’attorno.
Meno noto (anche perché estremamente meno prolifico) di Frederic Wiseman, Ross McElween è un capisaldo tra i registi contemporanei attivi nel cinema documentario americano, e con l’autore di Titicut Follies forma una florida coppia di opposti. Dove Wiseman scompare, ambendo all’esplorazione chirurgica di un contesto antropologico-sociale da comprendere e restituire al di fuori di sé, McElween non racconta che sé stesso, il mondo che ha attorno e come esso possa essere ritratto attraverso la macchina da presa. Rispetto a Wiseman ne risulta una filmografia meno universale ma più sfidante, scomoda, lontana dalle categorie che caratterizzano quel cinema – rigore etico, afflato civilista, umanesimo sconfinato, e gioiosa, luminosa curiosità infantile – e più vicina alla “scuola” di autori che si rifiutano di separare l’espressione della propria vita dalla produzione delle proprie immagini, che sia in forma finzionale a là Cassavetes o documentaria come il cinema home movie di Jonas Mekas.
Ciò che più contraddistingue McElween è però il suo atteggiamento ricorsivo: dal classico Sherman's March (1986) a Photographic Memory (2011), il suo cinema non si accontenta di flirtare con il dato autobiografico, mescolando i piani fino a mettere al centro della lente il racconto di sé e famiglia, ma ingloba nell’indagine filmica l’atto stesso del filmare, la presenza e il ruolo del dispositivo nel contesto domestico quotidiano e personale. Tutta la carriera di McElween – Remake in tal senso ne è il capolavoro, il punto d’arrivo liminale – si configura come l’esplorazione del rapporto osmotico di un uomo con la (sua) macchina da presa, di una compulsione a trasformare rapporti e situazioni e sentimenti in immagini, ponendo l’impianto di registrazione tanto come lente d’ingrandimento quanto come scudo, barriera protettiva. O peggio, forse, come unica appendice ancora possibile, dotata di sensibilità tattile.
Remake è dedicato a due persone care a McElween, entrambe scomparse in tempi recenti. La prima è una perdita atroce, quella del figlio Adrian, morto nell’inverno del 2016 per una overdose da fentanyl, dopo un lungo inferno di depressione e tossicodipendenza. Attorno al vuoto lasciato dalla sua morte nasce il film, che a un primo livello si offre come l’esplorazione straziante di un lutto, il tentativo di ricucire tra loro decenni di immagini relative al rapporto padre-figlio, tratte sia dalla carriera di McElween (in un altro contesto le avremmo definite private, ma qui il termine perde pressoché senso) sia dall’archivio personale di Adrian stesso. La seconda persona è Charleen Swansea, poetessa e docente di letteratura, amica di una vita di McElween scomparsa nell’agosto del 2018. Essendo una persona chiave nella vita privata del regista, essa – ovviamente – compare più volte nel suo cinema e nelle immagini riproposte dentro Remake. Ma la sua presenza supera la dimensione del compendio. Charleen è l’unica persona intervistata frontalmente in forma inedita nel corso del film, e il suo punto di vista rende visibile la vertigine ricorsiva che – in aggiunta al già complesso tema del lutto – rende il film memorabile. La donna infatti non solo mette in difficoltà McElween sottolineando quanto sia stata invasiva la sua attitudine a filmare nel corso degli anni, e quanto l’atto stesso di mescolare pubblico e privato per fare cinema abbia impattato sulla tenuta della sua famiglia, a partire dalla psiche – evidentemente fragile – di Adrian, ma respinge il modello da “Homo technicus" incarnato dall’amico, a favore di un diverso e assai più libero approccio alla memoria, al tempo, al susseguirsi dei rapporti e delle persone nello scorrere della vita. Charleen non congela né immortala nulla, non media, bensì ricorda finché riesce a ricordare e il resto lo lascia scomparire, sciogliersi al calore del tempo, scoprendosi ogni giorno vicina a ciò che ama nella vaghezza di una memoria a maglie larghe. Non solo: l’oggetto che McElween continua a interporre tra sé e il mondo è un dispositivo orribile, dice, un marchingegno invasivo e pesante e materialmente brutto da guardare e da toccare. Un peso, piuttosto che un aiuto.

A fare da eco alle parole di Charleen troviamo altri elementi che fanno capire come McElween sia ben consapevole della natura di autodafé che permea l’operazione. Anzitutto, più volte il regista ci racconta come nessun membro superstite della sua famiglia voglia più, da anni, essere filmato da lui, che si tratti di materiale per un documentario o meno. Figli ed (ex) moglie rifuggono l’inquadratura, schivando non solo la messa in quadro ma un’intera modalità relazionale tra sé e mondo che McElween ha così a lungo imposto loro. Ulteriore elemento rivelatore è la figura della nuova moglie del regista, documentarista a sua volta, che rifiuta anch’essa di essere ripresa in volto, nonostante si presti a quel disturbante cortocircuito di auto/meta/rappresentazione qual è stato il matrimonio tra loro, celebrato da soli, e da entrambi filmato vicendevolmente e in contemporanea con due dispositivi di ripresa (e inserito quindi nel documentario).
Presentato in Fuori Concorso a Venezia 82, Remake è in buona sostanza il film capolavoro del festival, una rappresentazione struggente del dolore e del fallimento e dei limiti di un padre, e contemporaneamente una dissezione pubblica del suo compulsivo bisogno di mediare per percepire sé stesso e gli altri e il mondo tutt’attorno. E dove i due piani s’intersecano il film raggiunge la sua vetta, con la sofferenza che evolve in consapevolezza nel momento in cui McElween si rende conto che a forza di filmare, e montare, e rimontare, e far girare quelle immagini, quelle stesse immagini che vediamo di Adrian, quelle inedite inserite in Remake e tutte quelle disseminate in decenni di carriera e presenti nei nostri dvd e negli hard disk e nei file streaming sulla rete e nelle clip su YouTube, che dopo tutto questo il ricordo di Adrian stia diventando una finzione narrativa, la persona un personaggio, la carne e il sangue una funzione drammaturgica. In un modo che non è una forma d’immortalità, ma la privazione d’esser stati qualcosa di vero e vivo.