Menocchio

di Alberto Fasulo

Più che un film storico, una riflessione sul diritto al dissenso. Fasulo racconta, con il consueto approccio documentaristico, la vera storia del mugnaio Menocchio.

Menocchio di Alberto Fasulo

Montereale, Friuli, fine ‘500. Domenico Scandella, detto Menocchio, è un mugnaio che vede e sente Dio in tutte le cose – aria, acqua, fuoco e terra - e che ha immaginato una sua personale, e affascinante, cosmogonia. La saggezza che gli deriva dall’esperienza del mondo gli impone di dubitare dell’immacolata concezione, mentre la riflessione sulla giustizia divina smaschera ai suoi occhi l’ingiustizia terrena, amministrata e imposta da quel potere cieco e brutale che non è solo secolare ma anche religioso. I suoi non sono, però, i pensieri tormentosi di un solitario, ma quelli fiduciosi e forse perfino ottimisti condivisi da un gruppo di persone che assieme a lui ragiona - ammirando la natura, un “Paradiso in terra” – e che con lui si confronta, per amore del libero pensiero. Ma il libero pensiero è già di per se stesso eresia: per questo Menocchio verrà incarcerato, torturato e costretto infine a scegliere tra l’abiura o il rogo.

Dopo Rumore bianco (2008) e TIR (Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film al Festival Internazionale del Cinema di Roma, 2013), Alberto Fasulo approda quasi in sordina al film storico, senza che l’intento di questa sua ultima opera si esaurisca però nell’appartenenza al genere, che anzi passa a ben guardare subito in secondo piano. Il suo cinema – tralasciando qui la quaestio del confine tra documentario e fiction – è stato finora sempre strettamente e saldamente aderente al reale. Menocchio di fatto non si discosta da questa linea, sebbene, nell’intento del regista, travalichi in un certo senso la stessa verità storiografica. La sceneggiatura si basa, più che sul libro Il formaggio e i vermi (1976) di Carlo Ginzburg, sul testo di Andrea Del Col Domenico Scandella detto Menocchio - I processi dell'inquisizione (15831599) (1990), e tuttavia la prerogativa dell’autore non è tanto una ricostruzione filologicamente perfetta degli eventi quanto la volontà di dare forma cinematografica a una suggestione, a un’idea che prescinde dalle sue infinite possibili manifestazioni spazio-temporali: il dissenso radicale, o meglio il diritto al dissenso, in un universo che nella sua reazione imprescindibilmente violenta rivela tutta la sua meschinità e la sua miseria spirituale.

Rigoroso, asciutto, compatto, perfino austero, Menocchio è un film di volti, quasi uno studio antropologico che esalta il suono delle lingue e dei dialetti assieme alle peculiari fisionomie dei personaggi, meravigliosamente interpretati da attori non protagonisti che fanno, spontaneamente, dei loro corpi strumenti espressivi. La macchina da presa sembra restare incagliata sui primi piani, assorbita, calamitata, mentre il mondo attorno - spesso escluso e spinto fuori campo - prende forma soprattutto attraverso suoni e rumori. La parsimonia dei campi lunghi sembra voler parcellizzare la realtà offrendone allo spettatore solo una parte – quella che conta – obbligando chi guarda a una prossimità estrema col personaggio che diventa, di volta in volta, commossa empatia o rabbiosa repulsione. La luce, trattata in senso marcatamente pittorico, si fa protagonista: usando solo l’illuminazione naturale l’occhio attento di Fasulo (qui anche direttore della fotografia) restituisce notturni morbidi e ambrati fatti di un buio pastoso e denso, e poi scene diurne biancastre e lattiginose, quasi volesse esplorare tutte le gamme possibili della luminosità insistendo sugli estremi.

La sobrietà e l’essenzialità del racconto, tutto imperniato su quei lunghi, capziosi e logoranti interrogatori dell’Inquisizione, ne bilancia i contenuti così gravi e severi. A Fasulo bastano poche immagini paradigmatiche per ribadire il senso ultimo delle cose: vedi la sequenza con i contadini che, stremati, innalzano l’enorme croce, sotto lo sguardo compiaciuto e incalzante dei religiosi. Un mondo tragicamente diviso in due tra chi comanda e chi deve soltanto obbedire. E chi – come Menocchio – tenta caparbiamente di superare quella rigida linea di demarcazione si troverà inevitabilmente costretto a scegliere tra la salvezza e l’amore per le proprie libere convinzioni.                      

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 19/09/2018

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