The Postman’s White Nights

Dopo la parentesi hollywoodiana Andrej Konchalovskij torna a casa, con lo sguardo rivolto a un piccolo villaggio russo che rifugge qualsiasi ipotesi di progresso.

Il postino Lyokha cammina tra le rovine del tempo, nelle casa distrutte e abbandonate della Russia che fu. Calpesta i ruderi della memoria con lo sguardo perso nel cielo sterminato. Giace nel grembo di una natura insidiosa che fagocita ogni elemento, senza rispetto per le piccole, caduche cose degli uomini. I suoi occhi azzurri, congelati in una bolla priva di durata, sono incapaci di vedere il futuro. Lo spettro del progresso è sempre alle sue spalle: il passato che conosce è davanti a lui, il futuro che misconosce è dietro di lui, impossibile a vedersi.

Lyokha vive a Kenozero, un villaggio nel nord della Russia che sembra rifuggire qualsiasi ipotesi di progresso. Un lago separa Kenozero dalla civiltà, la Russia rurale da quella occidentalizzata e in balia del domani. E’ proprio Lyokha il tramite tra questi due mondi distinti, il postino viaggiatore che è destinato a tornare sempre a casa. Ogni tentativo di fuga è condannato al fallimento: Kenozero è la forza attrattiva che lo richiama sempre a sé, la casa in cui dover necessariamente tornare, le radici senza le quali è impossibile continuare a vivere. La città appare infatti come una zavorra respingente, il grande centro commerciale che ha venduto l’anima gogoliana dell’antica Madre Russia.

Andrej Konchalovskij, dopo la parentesi hollywoodiana, ritorna a casa. I confini di The Postman’s White Nights sono quelli del lago in cui lo sguardo si raccoglie. Luogo chimerico occluso al tempo e allo spazio, il lago si pone come orizzonte senza un domani, formato di stallo e ristagno dell’immagine stessa. Inquadrature fisse, cornici invalicabili, persone reali che non recitano ma vivono. Il film di Konchalovskij si spalanca sulla sonnolenta vita quotidiana degli abitanti di Kenozero, rendendo invisibile la sua macchina digitale. Non per niente l’opera si apre con delle fotografie bloccate nel tempo, atti di resistenza alla morte di un’intera cultura.

In questo anticorpo russo, la parola internet viene pronunciata (non a caso) solo da un bambino, i cellulari sono quasi inesistenti, i televisori trasmettono programmi di decenni prima. Ciò che mette in crisi la quotidianità del protagonista è il sogno di un gatto grigio che, nella sua ricchezza esegetica, si potrebbe configurare come primo momento di una progressiva consapevolezza da parte di Lyhoka. Ma Konchalovskij lascia aperta ogni possibilità interpretativa e, come i più grandi, evoca senza mai spiegare, mostra senza mai giudicare: nel suo fare a meno di luci artificiali, nel suo inseguire un’immagine-verità invasa da pixel notturni, The Postman’s White Nights sembra un film in costruzione, privo di inizi e finali. Eppure è anche un’opera capace di contaminare il realismo della messa in scena con suggestioni metafisiche, singoli momenti in cui le sonorità tarkovskiane di Eduard Artemyev ipnotizzano l’occhio frenetico dello spettatore. Basti pensare alla magica sequenza in cui Lyokha e il bambino avanzano per le acque torbide del lago, alla ricerca della strega Kikimora: riflessi acquatici di un sole in controluce, composizioni fluide di antiche superstizioni, di regni misteriosi e ormai dimenticati.

A spezzare l’immagine orizzontale del lago è l’improvviso lancio di un missile. La Russia insegue il cielo alle spalle di Lyokha, senza che lui possa vederla (o senza che lui voglia vederla). Alla velocità interstellare viene contrapposta la continuità rurale. Il progresso, anche come possibilità di una guerra imminente, buca lo schermo mentre gli abitanti di Kenozero (ci) guardano, seduti a bordo di una piattaforma galleggiante. Sembra quasi la foto vivente di un presente alternativo, l’immagine sintetica di un what if nazionale pronto a vivificare fantasmi e memoria di un intero paese.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 05/09/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria