Duse
Della Duse interessa a Marcello un unico aspetto: lo struggimento di un'icona del passato intenta a modernizzare il proprio mito, ma la valenza totalizzante del personaggio rischia di soffocare l'intero spettro drammaturgico del film.
«Lo sciopero è finito!», urla uno squadrista con tono imperativo al conducente di un treno fermo sui binari per l'agitazione l'Italia deve correre veloce. Questa breve battuta, recitata tra le righe da un personaggio-comparsa, mentre Eleonora Duse (Valeria Bruni Tedeschi) è in procinto di dirigersi verso la capitale per incontrare Mussolini, non traccia solo una precisa propensione futurist(ic)a di coloro che volevano rifondare il paese, ma è la bussola tematica di tutto il film. Specialmente se la si rilegge alla luce dei discorsi che Pietro Marcello imbastisce attorno all'eponima attrice teatrale, e della condizione esistenziale che possiamo attribuire all'artista nel periodo finale della sua vita. Perché l'anziana Duse, per come la concepisce il regista italiano, non è nient'atro che un retaggio del (dimenticato) passato, il cui obiettivo è quello di (soprav)vivere in un presente che la rigetta in quanto testimone - e quindi espressione – di un orizzonte (storico, culturale, artistico) su cui la Grande Guerra ha posto da tempo la parola fine, cancellandone dall'attualità le tracce, e sostituendole con coordinate più moderne, e perciò affini a un'epoca nuova, che pur essendo ancora inafferrabile si trova sul punto di palesare le sue trasformazioni socio-politiche.
Ma come si può legare il decadente mito di Duse alle evoluzioni che stanno montando nella società tout court? Per il film di Pietro Marcello – presentato in Concorso alla 82ͣ edizione del Festival di Venezia, la risposta non può che concernere le matrici stesse dell'iconicità della celebre interprete: ovvero l'arte teatrale. Nell'incipit dell’opera, dopo aver superato indenne la notizia del fallimento della banca a cui aveva affidato tutto il suo patrimonio, l'attrice decide di tornare a distanza di molti anni sul palcoscenico, con l'obiettivo di mettere in scena una vecchia pièce di Ibsen. Ma i classici, per quanto tali, non possono che parlare del loro presente, risultando perciò anacronistici agli occhi di chi, come i cittadini italiani agli albori del Ventennio, sta cercando a tutti i costi di lasciarsi alle spalle le tragedie belliche, e di individuare nel nazionalismo fascista il viatico che conduca verso il futuro. E per tale motivo Eleonora Duse decide prima di portare in scena il testo di un drammaturgo debuttante (l'unico, a detta sua, in grado di ragionare sulle ansie e sulle inquietudini dell'era moderna) e poi di rifugiarsi nella sapienza dell'amato/odiato Gabriele D'Annunzio (Fausto Russo Alessi), l'eroe-simbolo dei tempi correnti. Ed è così che i personaggi di Duse, sia chi insegue una volontà restauratrice (il governo che desidera “ricostruire” la nazione), sia chi non tollera la sostituzione dei “classici” secondo un'ottica puramente reazionaria (il vecchio pubblico duseiano), partecipano a questo scontro/incontro di idee e visioni appartenenti a sfere temporali differenti. Fino a illuminare la dualità semantica della protagonista: figlia di un mondo dimenticato, eppure disposta a innervare l'universo teatrale italiano di connotazioni inedite, più in linea con la realtà dei primi anni Venti.

A esaltare questa continua opposizione è proprio la figura accentratrice di Eleonora Duse. L'eccentricità che Bruni Tedeschi le dona in ogni movimento, in ogni azione o parola pronunciata (o, meglio, urlata) verso gli interlocutori che desiderano disinnescarne le iniziative evidentemente anacronistiche, funziona solo se la si rapporta a questi discorsi, e alla coerenza con cui Marcello equipara le fantasie progressiste dell'attrice («il teatro vive solo se si interroga sul presente») con le riflessioni che il cineasta italiano dissemina trasversalmente lungo tutto il film (l'Italia, appunto, che corre veloce, o la difficoltà della società di inglobare nuovi canoni). Ma la figura della divina, per quanto rappresenti un caleidoscopio quasi naturale dei temi veicolati dal regista, è pur sempre l'unico punto focale della narrazione. E più Marcello si attacca al corpo e al volto di Duse, rendendola dominante, maggiore è il depotenziamento drammaturgico a cui viene assoggettato tutto il resto dei personaggi. Da un certo punto di vista, sembra proprio che l'assoluta e incontestabile nevralgicità (narrativa, iconografica, comunicativa) che l'attrice detiene nell'intero corpus della narrazione, arrivi a bruciare il terreno che la circonda, tanto che ogni figura del racconto (la figlia Enrichetta, interpretata da Noémie Merlant, Mussolini e in particolare D'Annunzio), non appena si approssima alla corporeità catalizzatrice di Duse/Bruni Tedeschi, si dissolve – drammaticamente parlando – quasi fosse cenere nel vento. Come se l'immagine, così avviluppata alla personalità totalizzante dell'interprete, non potesse contenere altro, al di là delle (vane) aspirazioni con cui un'icona del passato cerca di modernizzare il proprio mito.