La rivoluzione non è una famiglia allargata: "Una battaglia dopo l'altra" e l'inganno del nuovo grande romanzo americano

di Paul Thomas Anderson

La nuova epopea di Paul Thomas Anderson cerca di mettere in scena la crisi privata e collettiva degli Stati Uniti, ma il risultato ci sembra più l'apologia di una soggettività pacificata piuttosto che un’alternativa rivoluzionaria allo status quo.

Una battaglia dopo l'altra - recensione film anderson

What time is it?

Bob Ferguson non sa che ore sono. Non conosce la risposta in codice, l’ha dimenticata. Droghe e alcol hanno offuscato il suo tessuto cognitivo, le sue coordinate percettive. Sono passati ormai sedici anni da quando era nel French 75 e faceva esplodere gli ordigni nei centri di detenzione del governo americano, e ora che si ritrova al capo sbagliato del telefono, senza alcuna idea di dove si trovi sua figlia Willa, è costretto a tornare in movimento per scoprirlo. Per decodificare l’informazione, deve rinascere – emergendo da un tunnel sotterraneo, come intuito da Rosario Gallone, proprio alla maniera in cui nasceva il personaggio di Daniel Day Lewis ne Il petroliere –, rinegoziare il rapporto con lo spazio – negli spazi liminali tra Stati Uniti e Messico –, scegliere i tempi giusti con cui agire (in un isterico conto alla rovescia che prevede anche di lanciarsi da macchine in corsa), e trovare l’informazione necessaria prima del colonnello Steven Lockjaw: quest’ultimo cerca Willa per ucciderla, perché nessuno deve sapere, men che meno i Pionieri del Natale, la setta suprematista di cui vuole far parte, che è lui il vero padre della ragazza. Insomma, per riconfermare il proprio ruolo paterno, Bob deve ricucire il proprio rapporto con il mondo (un classico esercizio di messa in scena di conflitto intrapsichico), sperando che la risoluzione dell’equazione (spazio+tempo=informazione) possa tradursi in una pacificata formazione di soggettività.

Per Paul Thomas Anderson, ancora una volta, il soggetto moderno si forma di rincorsa (secondo un disordine spielberghiano), in “una battaglia dopo l’altra”, nella negoziazione continua con altre identità, seguendo un gioco di rapporti che appaiono polari ma sono in realtà triangolari: rapporti di forza tra due consimili che si studiano si specchiano e infine si differenziano, proprio prendendo posizione rispetto alla presenza di un terzo, asintoto al vertice nei confronti dei quali i due tentano di approssimarsi, guadagnando o perdendo terreno. A differenza dei precedenti film del regista, però, in Una battaglia dopo l’altra (liberamente tratto dal Vineland di Thomas Pynchon) il triangolo isoscele è doppio, perché ancora prima di Willa il vertice conteso da Bob e Lockjaw è proprio Perfidia – agente rivoluzionaria, compagna di Bob, preda di Lockjaw, talpa per il governo, latitante per senso di colpa. La prima volta che vediamo Bob è proprio durante una rincorsa verso il volto imbronciato della donna: una fata morgana distante e vicina a un tempo, illusione ottica di un orizzonte rivoluzionario che si trasforma presto in un fantasma destinale, evocato in dissolvenza incrociata (come in una mise en abym di tutto il film).

Di questo inizio si è detto molto sul lato del sensuale – per il rapporto tra suono e immagine impostato dalla partitura con cui Johnny Greenwood, rubando un po’ le idee all’Ennio Morricone di La battaglia di Algeri, cerca di plastificare le compressioni elastiche del tempo e le distensioni erotiche dei corpi – ma quasi nulla su quello del sessuale. Non basta menzionare la simbolica gag in cui Sean Penn trasforma Lockjaw in un adolescente sottomesso alle provocazioni sessuali di Perfidia (Teyana Taylor), per decodificare l’intuizione con cui Anderson istanzia l’azione rivoluzionaria come uno spazio di pura e incontrollata libidine, in opposizione all’ideologia occidentale dominante e al conservatorismo politico per la difesa dello status quo - per cui, ricorda Alenka Zupancic nel suo Che cosa è il sesso?, «l’impegno politico militante è per definizione patologico, e non adatto alle persone non normali e non nevrotiche». Lo si capisce bene quando Perfidia si eccita perché Bob le sta spiegando come attivare un innesco – una scena che ricorda la presa delle misure sartoriali ne Il filo nascosto –, o meglio ancora quando proprio sul punto di far esplodere un ordigno la donna vuole avere un rapporto sotto un traliccio ad alta tensione: sublimazione di una pulsione senza rimozione, il sesso come frattura capace di alterare la realtà, lo stato di fatto, questa è Perfidia. Anderson insomma sembra voler filmare la rivoluzione come la filmavano Koji Wakamatsu e Masao Adachi, registi giapponesi a lungo interessati ai movimenti sovversivi come campo di incontro/scontro di pulsioni, al crocevia tra l’autodistruzione e la contraddizione del potere costituito. È però solo un’impressione. Anche se il regista americano mostra il disordine entropico del movimento rivoluzionario, bastano trenta minuti per capire che Una battaglia dopo l’altra pensa in maniera molto più normativa rispetto a film come Ecstasy of Angels, Sex Jack o United Red Army: nel cinema di Anderson nessuna soggettività compiuta può sorgere dalla libertà sessuale, ma solo in alternativa ad essa, controfirmando con la rimozione un contratto sociale molto più compromissorio.

Una battaglia dopo l'altra - recensione film anderson

Lo rivelano le scelte di distanziamento da Pynchon – tra cui la completa rimozione di qualsiasi promiscuità tra i personaggi – e soprattutto le geometrie con cui i protagonisti transitano di scena in scena. Di fronte alla minaccia presentata dal proprio opposto, e cioè Lockjaw (con il suo desiderio per Perfidia), il personaggio di Bob, o meglio, la soggettività di cui vorrebbe essere epitome, perde terreno, deglutita da un montaggio alternato sempre più avvolgente (quello che i teorici dell’apparato chiamavano “sutura”): la situazione sfugge di mano, i morti aumentano, la sicurezza è svanita. Per definirsi saldamente, l’identità del protagonista, interpretato con grande mobilità espressiva da Leonardo Di Caprio (ma senza nessuna consapevolezza di classe – e sarebbe anche ipocrita), esce dal campo alternativo e sovversivo del sessuale per entrare in quello consolatorio della genitorialità: non vuole più una rivoluzione ma una famiglia, e diventa, di colpo, in ellisse, papà single di un’adolescente. E cioè un individuo con appetiti inesistenti, lasciato a scorrazzare nella sua vestaglia a quadri, costretto a ritrovare la figlia per ritrovarsi. Per Anderson non sembra esserci differenza tra la coscienza di Bob e quella rivoluzionaria in senso lato: disorientato e anche ridicolo, l'attivismo è mostrato come incapace di fare testuggine contro la frantumazione postmoderna o lo strapotere militare. Oltre che lo stato mentale dello stesso Bob e il trattamento riservato alla canzone di Gil Scott-Heron The Revolution Will Not Be Televised – spezzettata, decontestualizzata, in una parola memificata –, ne sono un segno allegorico la caratterizzazione degli epigoni più radicali della rivoluzione, che crollano verticalmente svendendo la missione sotto minaccia famigliare, e dell’eroe del film – il sensei Sergio St Carlos interpretato da Benicio del Toro –, che qualcuno potrebbe definire come il vero rivoluzionario (per il suo aiuto sotterraneo e silenzioso alla comunità messicana) ma che, pur essendo raro esempio del mitologema del trickster, e quindi di quel tipo di antieroe amorale che presiede agli spazi liminali come vie di rigenerazione creativa e sociale, è caratterizzato in un senso molto rassicurante – di nuovo, genitoriale.

Non è di per sé un male. Per Anderson conta forse di più studiare con perizia l’impossibile e paradossale equilibrio dei complessi rapporti sociali e relazionali (come accade spesso nei suoi finali, Il filo nascosto su tutti), e de-costruire con ottimismo il loro luogo di crisi e ricomposizione (la famiglia), piuttosto che immaginare come una nuova soggettività possa riscrivere le condizioni che l’hanno prodotta. Assecondando questa preferenza, riesce a cogliere di striscio lo spirito del tempo – rendendo evidenza, in un singolo taglio di montaggio, dell’accelerazione neoliberale che ha distrutto vite, azzerato gli spazi e chiuso degli orizzonti in una scatola repressiva («Time doesn’t exist, yet it control us») - ma non diventa di certo il costruttore di un nuovo immaginario controculturale, il salvatore del cinema americano contemporaneo, l’arbitro di una politica sovversiva travestita da cinema d’azione per un pubblico largo, che qualcuno sembra a forza voler riconoscere in lui. Quando il film riorganizza le proprie triangolazioni per mettere Willa al centro di questo interrogativo, sempre con Bob e Lockjaw a cercare se stessi usandola come stella cometa, il risultato dell’equazione non cambia: ciò che interessa al regista è di nuovo interrogare le modificazioni dello spazio – dopo la prima parte dedicata al tempo – come campo allegorico attraverso cui esaminare i conflitti intrapsichici famigliari.

È interessante notare come da questo punto di vista il genere di riferimento della seconda parte, e cioè il western, sia per questo regista non tanto chiave di volta su cui tentare di fondare un nuovo immaginario condiviso quanto una cassa di risonanza del conflitto privato, una cornice normativa attraverso cui ammortizzarne i conflitti, una grande narrazione (luogo comune per Anderson  è del resto il “grande romanzo americano”) che permetta – come il noir in Vizio di forma, il melodramma inglese de Il filo nascosto e la commedia sentimentale in Licorice Pizza – di armonizzare la molteplicità di punti di vista, risolvere la disarmonia polifonica del mondo che precede come fondale scenico qualsiasi soggettività. Si direbbe che Anderson creda, come Assayas scriveva nei Cahiers, che «il miracolo del western non poteva durare oltre una generazione. Già i western degli anni 50 perdono di vista la materia che li ha generati per mantenere unicamente il mito cinematografico. Il cerchio si chiude, non restano che le figure retoriche di un’arte alla ricerca del suo linguaggio. Da allora la storia del cinema americano è segnata indelebilmente dalla ricerca di uno spazio che pure per definizione è perduto. Nessun evento collettivo potrà mai più ambire a secernere uno spazio nuovo, o a maggior ragione, un orizzonte positivo».

Una battaglia dopo l'altra - recensione film anderson

La fine del western - «l’istante in cui una nazione si è confusa con un’arte» – ha generato solo due possibili esperienze collettive dello spazio: da un lato l’introspezione moltiplicata all’infinito, il viaggio considerato come scopo in sé, la ricerca della Frontiera all’interno di sé stessi; dall’altro il nuovo oceano dello spazio cosmico, simulacro di un infinito inesplorato, frustrazione di un popolo data in rappresentazione, derisorio surrogato in forma di terreno di gioco per l’immaginazione. E quindi Paul Thomas Anderson e James Cameron, interno ed esterno, psichico e fisico, fuoco e acqua: dopo la morte di David Lynch, gli unici (assieme a Michael Mann) a porsi il problema della fine del cinema americano come problema di spazio. Da sempre vicini - è riemersa online un’intervista a un giovane Anderson in ammirazione per Terminator 2 -, oggi più che mai questi due cineasti appaiono in continuità di pensiero. Avatar: La via dell’acqua e Una battaglia dopo l’altra finiscono allo stesso modo, con un riconoscimento tra padri e figli che è possibile chiave di volta per la re-invenzione dello spazio cinematografico come luogo umanista - a ben vedere anche Ferrari finisce così. Mentre però il riconoscimento finale (i greci la chiamavano agnizione, catarsi) nella saga di Avatar apre anche uno spazio ecologico, in cui il riciclo delle mitologie fonda un nuovo universo in cui la tecnica può utopisticamente risanare e non conservare i rapporti di proprietà vigenti, Una battaglia dopo l’altra non si chiede se sia possibile che dalla chiusura della linea di fuga, dalla fine della frontiera - quell’evento collettivo che è la frattura Stati Uniti e Messico, lungo cui si muove tutta la narrazione - possa nascere un nuovo rapporto di potere.

La ricerca di Anderson è più conservativa, perché traccia al massimo il dato psicologico di quel punto cieco che è il contemporaneo, mostrandone i circuiti nervosi - i percorsi dell’informazione sempre più sotterranea, tra tunnel, passaggi segreti, doppi fondi, bunker, uffici in grattacieli – e le compressione psichiche - per cui autostrade lunghissime si arrotolano su se stesse come lembi di un cervello allucinato. La sua indagine alla fine si conclude non a caso nei primi piani di un padre e una figlia, con cui riprogramma in senso classico le geometrie del triello finale di Per qualche dollaro in più (con il cercapersone invece dell’orologio carillon a innescare la musica risolutiva) – uno dei momenti in cui il postmoderno aveva tentato appunto di rivoluzionare un genere, uccidendolo. Alla vertigine della frontiera, il regista non guarda oltre la curva, si volta, e in un’inattesa torsione premoderna - che attinge alla franchezza con cui John Ford filmava l’incontro risolutivo tra Ethan e Debbie in Sentieri Selvaggi – chiude il triangolo per risignificare il cinismo del tempo con un mezzo sospiro di sollievo: Bob e Willa si sono finalmente ri-conosciuti.

L'illusione con cui questo tipo di ottimismo neo-pragmatista americano riempie lo spazio del rimosso (quell'alternativa dimenticata costituita dal sessuale), cercando di armonizzare la tensione tra privato e pubblico, non si rivela mai nel proprio carattere illusorio. Eppure se sul piano psicanalitico tout se tient forse è proprio grazie a una finzione a cui i personaggi si adeguano: la scomparsa della minaccia più urgente - il corpo di Lockjaw brucia carbonizzato da fascisti molto più cattivi di lui - fa apparire una lettera, segno di una rinnovata (per quanto impossibile) soggettività famigliare - ecco infatti ricomparire la voce di Perfidia, mentre Willa legge la sua confessione di colpa e Bob torna sereno all’infantile stadio dello specchio (imparando a farsi i selfie con il telefono). Anderson non ha il coraggio di sconfessare l'equilibrio, come invece faceva Tarantino - che con la missiva fasulla di Abramo Lincoln nel finale di The Hateful Eight raccontava con più onestà intellettuale la crisi epistemica corrente negli Stati Uniti. Il risultato è che lo spazio sociale, che non corrisponde per forza al regime intrapsichico di una felice famiglia allargata, resta infine disatteso, o meglio, proiettato in un altrove invisibile, su cui scommettere con la propria immaginazione spettatoriale. Con quali strumenti? «Nessuno sforzo filosofico da Platone in poi è riuscito a fondere la perfezione della dimensione personale con la solidarietà nei confronti della questione pubblica»  scriveva Richard Rorty, proprio uno dei campioni della filosofia pragmatista. Chissà se le suggestioni percettive e sensomotorie di Una battaglia dopo l'altra (in un ultimo una nuova canzone-motto, American Girl di Tom Petty, colonna sonora di una generazione che riparte alla corsa), tese come sono a indicizzare il nostro problematico presente come un futuro sul punto di essere risolto fuori campo, avranno maggior fortuna. 

 

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 14/10/2025

Articoli correlati

Ultimi della categoria