Straight Circle
Un folgorante film sulle logiche del confine, tutto votato all'esaltazione del dialogo tra uomini ideologicamente incompatibili, e alla stigmatizzazione, tramite i linguaggi del grottesco, delle assurdità intrinseche all'imperialismo. Vincitore del Premio come Miglior Film alla SIC 40.
Due nazioni, due ideologie, un solo confine disperso nel nulla. A Oscar Hudson basta tracciare una mera linea nel deserto per delineare i cammini (fisici ed esistenziali) di una coppia di soldati in costante opposizione reciproca, destinati a condividere una misera zolla di terra nonostante le diverse affiliazioni a cui hanno votato le loro vite. Arthur e il suo innominato omologo (interpretati, guarda caso, dai gemelli omozigoti Luke ed Elliott Tittensor) sono stati dislocati per ordine dei rispettivi paesi di appartenenza nella zona di separazione tra i due stati in conflitto, con il compito di supervisionare l'accesso alla frontiera nazionale e disinnescare le iniziative belligeranti del “nemico di confine”. Le attività quotidiane dei due protagonisti di Straight Circle, già di per sé connotate di un certo alone di assurdità essendo declinate in un contesto così remoto e distante dai centri di potere di ambedue le nazioni, assumono sin da subito un afflato propriamente grottesco, da leggere qui in chiave sia antropologica che smaccatamente politica. Una dualità semantica che deve necessariamente riflettersi, agli occhi del cineasta inglese, nell'abbattimento materiale e metaforico del confine, il cui annullamento dà qui vita – come logico aspettarsi – non solo a una democratizzazione delle esperienze e del retroterra ideologico dei due soldati, ma a un vero e proprio inno allo spirito “ecumenista” dell'essere umano. Votato a una comprensione autentica dell'altro, anche in faccia alle acrimonie che il potere politico vuole attivare in chi non rispecchia i propri dogmi culturali.
All’interno di questa cornice Straight Circle, presentato in Concorso alla 40ª edizione della Settimana della Critica di Venezia82, dissemina le sue istanze narrative, dalla natura apertamente sociologica. La stessa idea di confondere gli spazi di appartenenza dei due soldati, con entrambi che arrivano addirittura a dimenticare quale sia la fazione a cui erano stati inizialmente assegnati, si carica di una potente sfumatura polemica, proprio perché denota l'assurdità della situazione (ovvero l'infondata opposizione all'altro, decisa arbitrariamente dall'alto) in cui i protagonisti si trovano a operare. E per restituire ulteriore incisività alle suddette critiche, Hudson traghetta gradualmente il racconto verso i lidi del grottesco, fino a compromettere la logicità stessa della narrazione: sia per quel che riguarda l'orizzonte iconografico del film, sia per ciò che concerne l'aspetto drammaturgico della storia. È così che il regista inglese inizia a mettere in scena un'escalation progressiva di stilemi e situazioni ben oltre il limite dell'assurdo, tanto da scadere più volte nella pura cornice dell'onirico, all'interno della quale si assiste al trionfo inesorabile della complicità umana sull'opportunismo politico dei vari establishment governativi, disposti a servirsi degli strumenti della guerra pur di legittimare culturalmente i propri principi ideologici.
Se in molte opere affini sono le istanze realistiche a rappresentare la tappa di passaggio ideale dell'oltranzismo o dell'antimilitarismo, qui è la surrealtà a connotarsi di valenze simultaneamente polemiche e umaniste. Gli spazi del “sogno”, di ciò che si contrappone al fenomenico e che appartiene a una dimensione astratta e iperuranica, assurgono in Straight Circle a fari della singolarità umana e della necessità, intrinseca all'individuo, di riconoscersi nell'immagine del diverso, proprio perché nella realtà – quella cioè sancita dalle esigenze egoistiche dei due stati confinanti, in cui vivono e lavorano i protagonisti – l'obiezione alle ideologie altrui è la sola azione che permette di validare l'influenza politico-culturale della nazione a cui si appartiene. Ed è con l'obiettivo di sfidare un assunto simile, da considerare comunque come dogmatico e lapidario, che il cineasta inglese ha affidato ai fratelli Tittensor (tali e quali nell'aspetto, una volta abbandonate le rispettive “casacche nazionali”) i ruoli dei soldati del racconto: diversi sì nella forma mentis, ma solamente perché sono stati costretti a recitare una parte che, a conti fatti, non rispecchia la loro reale natura. La quale emerge – guarda caso – solo in seguito alle varie peripezie oniriche a cui li ha sottoposti la narrazione, depositaria di un umanismo e di una fiducia cieca nelle virtù degli uomini, anche – e forse soprattutto – di quelli sottoposti sin dalla nascita alle logiche dell'imperialismo.