Agon
Il mito sportivo diventa specchio della tensione tra registrazione e astrazione, attraverso la ri-funzionalizzazione della mitologia sportiva, laddove discipline caratterizzate essenzialmente da un’attitudine bellica si confrontano con la pace artificiale della simulazione.
La dimensione del gesto atletico nelle competizioni sportive non è più appannaggio esclusivo di una certa fisicità del corpo, ma si è trasformato anch’esso in una proiezione numerica, un dato che acuisce ulteriormente il conflitto tutto contemporaneo tra presenza e simulazione, corporeo e virtuale. Agon, opera prima di Giulio Bertelli, sfrutta proprio questa crepa, un’intuizione che, abbinata a un ritmo da thriller e a un linguaggio incredibilmente fresco e attuale, permette al film di riflettere sulle sorti del gesto agonistico – da qui il titolo – all’epoca della digitalizzazione. Le atlete protagoniste abitano spazi in cui l’arena sportiva si trasforma in interfaccia digitale, e il loro corpo – sudore, tensione, fatica – diventa al tempo stesso oggetto di registrazione e superficie di proiezione simbolica/immaginaria. Di fatto, Bertelli mette in scena la tensione tra corpo, politica e simulazione tecnologica, sfruttando la vicenda di tre atlete di diverse discipline – interpretate da Sofija Zobina, Yile Yara Vianello e dalla vera judoka Alice Bellandi, oro a Parigi 2024 – per porre lo spettatore al centro di una dialettica tra performance umana e simulazione digitale.
La scelta degli sport affrontati non è casuale, in quanto sono tutti – judo, scherma, tiro a segno – nati in tempi di pace come esercizio preparatorio alla guerra, e poi evolutisi in discipline professionistiche e di intrattenimento. E proprio dai suoi caratteri bellici, Bertelli sviluppa una ricodifica dell’immagine sportiva e un suo ricollocamento all’interno di una dimensione mitizzata. Ognuna delle tre figure, infatti, ha un suo corrispettivo storico/filmico – dalla Giovanna D’Arco di Dreyer a Cleopatra – che viene accuratamente immesso e attualizzato nel discorso odierno, così da collegare il racconto ancestrale al gesto estetico contemporaneo, trasformato dalla digitalizzazione in un movimento post-umano (in tutta la contraddizione che così ne deriva). Da un lato, infatti, la funzione del corpo è accuratamente ricalibrata, in quanto funge sia da concreto oggetto di monitoraggio che da superficie simbolicamente schermica. Dall’altro, proprio questa tecnologia galoppante mette lo spettatore in una posizione etica piuttosto complicata, in quanto evoca una condizione di post-umanesimo. Il corpo non è abolito, ma si realizza attraverso la sua proiezione e duplicazione digitale. Ciò comporta il distacco dalle sue normali funzioni organiche, iscrivendo la carne in un flusso di segni digitalizzati che la rende replicabile, misurabile e soprattutto competitiva su più livelli.
La camera di Bertelli, non a caso, stringe il corpo con una prossimità pressoché claustrofobica, sfruttando anche riprese interne che trasformano Agon in un’esperienza a tratti disturbante, molto vicina al linguaggio estetico del body horror contemporaneo – come mostrano le riprese chirurgiche e i vari close-up su dettagli macabri dei corpi sotto sforzo delle atlete protagoniste. Questa moltiplicazione dei punti di vista implica anche una ridiscussione della post-verità nell’ambito dell’immagine. L’uso di overlay grafici, punteggi e interfacce sportive genera un’estetica che il regista sfrutta per porre il film su un modello di trasparenza digitale che ricalca il linguaggio dei videogame, filtrando la fisicità attraverso degli strati informativi – nel caso in questione, delle scritte in sovrimpressione che indicano parametri corporei specifici – che pongono l’immagine non più come mera rappresentazione del reale, ma come appendice post-veridica, usandola come strumento per spostare la percezione dello spettatore dal corpo tangibile alla sua versione numerica.
Il corpo è ridotto a semplice rappresentazione, dato che le atlete sono trattate come dei veri e propri avatar, la cui dimensione performativa non si esaurisce nel sudore o nella fatica, ma si completa solo quando interviene il digitale (salvo poi reclamare tutta la sua dominanza sul virtuale nel momento della rottura). Questa alternanza suscita nello spettatore una tensione costante, che lo porta a identificarsi nelle protagoniste e nella loro oscillazione continua tra la carne viva e il simulacro. Dominato da punteggi sintetici e overlay, il gesto sportivo non ha più valore per la sua fisicità, ma si trasforma piuttosto in un’unità di calcolo, la quale può essere trasmessa, analizzata e “gamificata” – come si può notare nelle sequenze ibride, nelle quali il montaggio del film passa rapidamente dalla registrazione “realistica” alla creazione di un ambiente virtuale ex-novo.