El Clan

Il regista argentino Pablo Trapero firma un'opera dalla cornice spettacolare, godibile nella confezione ma poco rilevante sotto il profilo civile e politico.

I Puccio furono una famiglia originaria di Buenos Aires e non ebbero un vissuto propriamente ordinario. Il pater familias infatti, Arquìmedes Puccio, insieme alla propria prole, all’inizio degli anni Ottanta si rese protagonista di alcune imprese a dir poco turpi organizzando un numero enorme di rapimenti e omicidi e mietendo le proprie vittime in mezzo ad alcune danarose conoscenze del figlio, giocatore di rugby a livelli professionistici. Una storia incredibile, piena di elementi affascinanti e tensioni familiari esplosive, che viene portata al cinema dal regista argentino Pablo Trapero in El Clan, film campione di incassi in patria e visto in concorso a Venezia 72.

Il regista di Elefante Blanco firma un’opera coinvolgente e appassionata, che però fatica a ritagliarsi un margine consistente di originalità e finisce con l’inserirsi in maniera piuttosto meccanica nella tradizione cinematografica del romanzo criminale contemporaneo, il più delle volte maneggiato con uno stile stolidamente pop e reso sostanzialmente innocuo agli occhi dello spettatore. Senza quella psicologizzazione che invece, negli episodi più riusciti del filone, va di pari passo con la ricostruzione d’epoca e il disegno dei personaggi.

El Clan, che pure poggia sulle migliori intenzioni possibili e non perde un colpo in quando a brio, effervescenza e ritmo, conferma tutti i limiti di una certa tendenza alla spettacolarizzazione a tutti i costi, finendo col produrre un’operazione di sicuro utile per la memoria storica di un paese (in Argentina il film ha dopotutto battuto qualsiasi incasso per quel che riguarda l’apertura al box office), ma al contempo mai scomoda o in grado di addurre ulteriori elementi di interesse rispetto alla conoscenza più ravvicinata di una storia probabilmente ignota ai più al di fuori dei confini nazionali di riferimento. Trapero è comunque un regista lodevole, la sua mano è ispirata e fluida, la politicizzazione della vicenda (il legame evidente con la dittatura militare) piuttosto eloquente e gli interpreti una garanzia (Guillermo Francella spicca su tutto e tutti per ferocia e impassibilità della sua maschera criminale). Tuttavia la sceneggiatura tende a rinchiudersi in maniera un po’ troppo esile a ridosso del familismo di fondo, creando meccaniche drammaturgiche piuttosto telefonate e prevedibili e delle allitterazioni visive (i rapimenti, uno via l’altro, senza scossoni particolari) che col passare dei minuti si fanno sempre più logore e spompe.

Come se non bastasse, Trapero sembra tenerci moltissimo a immortalare le scene più cruente con puntuali ammiccamenti scorsesiani, costante dominante, oggigiorno, di un’iconografia della violenza priva di personalità: un approccio che alla lunga tradisce un certo irrigidimento e annega nel calligrafismo e nel derivativo, senza riuscire a trovare un’autonomia nella rivisitazione dell’immaginario gangsteristico.

Il finale in parte rialza la testa, con un ottimo rendez-vous padre-figlio recitato a livelli impressionanti dal solito Francella, e sulla scia di un approccio iperrealistico che finalmente fa riassaporare un pizzico di autenticità e di crudo rigore, a debita distanza dal tono furbescamente popolare dei momenti precedenti. Un approdo però troppo tardivo, che non fa in tempo a riscattare del tutto un’operazione dignitosa ma innocua, che preferisce abbaiare piuttosto che mordere. Rimane allora il rammarico per cosa ne sarebbe stato di questo film se a dirigerlo fosse stato un altro regista sudamericano, di sicuro meno letterale e più interessante, come l’eccellente Pablo Larraìn, da sempre avvezzo a parlare del proprio paese, in quel caso il Cile, in maniera meravigliosa e il più delle volte metaforica e mediata. Un procedimento che nel film di Trapero è forse in parte suggerito, ma mai coraggiosamente abbracciato.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 08/09/2015

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