Desktop - Brevi note sul cortometraggio e intervista al regista Michele Pastrello

di Michele Pastrello

«Gli incontri più importanti sono già combinati
dalle anime prim’ancora che i corpi si vedano.
Generalmente, essi avvengono quando arriviamo a un limite,
quando abbiamo bisogno di morire e rinascere emotivamente»

P. Coelho

Desktop è il nuovo cortometraggio di Michele Pastrello, regista veneto già distintosi con i precedenti lavori (InHumane Resources, Ultracorpo, 32 e Nella Mia Mente). Questa volta la scommessa era raccontare in meno di quattro minuti l’incontro di due mondi totalmente differenti: quello di una donna in carriera nella metropolitana e quello di un uomo ritiratosi da eremita nei boschi. Per farlo, il regista (nonché sceneggiatore, produttore, montatore e in parte operatore) ha messo completamente da parte i dialoghi per affidarsi a immagini e musica. La scelta appare riuscita, perché le sensazioni emergono tangibili nelle interpretazioni di Viviana Leoni e Stefano Negrelli, ma soprattutto nei paesaggi. Le location hanno infatti un ruolo preponderante, perfettamente fotografate da Mattia Gri e Daniele Serio, e spaziano dalle montagne di Valdobbiadene a quelle di Tarvisio, dal lago di Fusine Superiore a Jesolo e Scorzè.

Perché hai realizzato DESKTOP?

Dopo aver esplorato i generi cinematografici, volevo far parlare una parte di me altrettanto importante, più radicata nella quotidianità e nell’emotività. Il tema che mi interessava affrontare era la solitudine. Probabilmente l’ho trattato anche in precedenza, ma attraverso il filtro del genere e all’interno di tematiche sociali come l’omofobia, il precariato, l’ambiente. Desktop può essere visto come un corto, ma per me è un non-racconto emozionale, perché si rivolge a chi lo guarda intercettando direttamente la sfera emotiva. I due protagonisti, così lontani e così vicini, sono persone sole, fragili, dure che compiono una serie di azioni simili, sebbene riadattate al loro contesto e al loro stato sociale, per arrivare, ancora una volta, fino a sera. Persone che talvolta però nella loro quotidianità trovano, percepiscono qualcosa, una via di fuga, un incontro o la sua necessità. Un attimo che, qualche volta, può permettere una nuova rinascita.

A proposito di generi, sei stato etichettato fin da subito come regista horror. L’avere deciso ora di deviare fa parte di un tuo percorso personale programmato?

No, diciamo che è stato casuale. Amo l’horror, o meglio, il thriller, però in questo periodo della mia vita le storie che mi frullano per la testa non sono quasi mai di genere. Per dirti, ho appena finito di scrivere il progetto di un film natalizio a cui credo molto.

Eppure, sebbene DESKTOP sia lontano dal cinema di paura, in qualche modo rimane affine a quello fantastico, magari labilmente…

Sì, l’ho notato. E ti dico così perché non me n’ero neppure accorto finché non me l’hanno sottolineato. Forse perché non escludo in modo categorico che nella vita di ognuno di noi possa capitare qualcosa di magico e misterioso.

Come mai non hai ancora esordito nel lungometraggio?

Perché non ho mai provato seriamente a farlo né mai ho trovato soggetti liberi da difendere a spada tratta. Purtroppo mi affeziono sempre a celebri romanzi d’Oltreoceano. Avrei dato un braccio per mettere in scena La voce dentro di Sara Gran, ma quando ho contattato l’autrice mi ha detto che il libro era opzionato dalla Miramax già da anni. L’altro braccio lo darei per la trasposizione de I ragazzi del coro di Joseph Wambaugh. Ma sono sogni. A questo aggiungici che per ora, e sottolineo per ora, non sono interessato a una totale autoproduzione.

Due segni distintivi del tuo stile sono i dialoghi ridotti al minimo, se non del tutto assenti, e la citazione iniziale in cui risiede il senso della storia. Ti capita mai di partire dall’aforisma per sviluppare successivamente la sceneggiatura?

Sì, con 32 e InHumane Resources è successo. Qui invece l’ispirazione arriva da me, è più interiore. Così mi sono trovato a sottoscrivere successivamente ciò che Coelho aveva già detto in 11 Minuti. Per quanto riguarda i dialoghi non saprei; è vero che quasi sempre ho fatto un cinema metaforico, in cui erano le azioni che diventavano storia eliminando la necessità del parlato, tranne l’eccezione di Ultracorpo. Anche con Desktop è successo così, perché non c’era bisogno di udire nulla dalla voce dei protagonisti, le azioni e il mood narrativo erano sufficienti a descrivere la situazione.

Desktop è visibile sul sito del Corriere del Veneto e sul canale Youtube del regista

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 18/08/2014

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