Yakuza Apocalypse

Il genio di Miike colpisce ancora: tra criminali, vampiri e arti marziali, Yakuza Apocalypse è un compendio del meglio del suo cinema

Il cinema di Takashi Miike, geniale e incredibilmente prolifico regista nipponico, sfugge a qualsiasi classificazione e inserimento in generi predefiniti, mescolando di volta in volta i registri più svariati, dall’action all’horror, passando per il dramma e lo yakuza movie, il tutto condito da un sense of humor tanto bizzarro quanto funzionale al contesto. Un totale di 99 pellicole dal 1991 a oggi, inclusi straight-to-video, episodi di serie tv (il magnifico Imprint della prima stagione dei Masters of Horror su tutti) e due film in pre-produzione: una bulimia che è catarsi liberatoria, una filmografia serrata in cui i capolavori non sono una rarità, alternandosi a lavori di livello inferiore ma mai mediocri, sempre e comunque personali. Lo stile di Miike è unico e inimitabile, le sue opere sono riconoscibili allo sguardo e alla percezione e le sue tematiche ricorrenti vengono decostruite e riassemblate con modalità sempre diverse da film a film. Yakuza Apocalypse (Gokudou daisensou), presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes come proiezione speciale fuori concorso nell’ambito della Quinzaine des réalisateurs, è stato definito da molti un ritorno alle origini del cinema di Miike, alle sue radici più deliranti e meno lineari: questo è vero solo in parte, in quanto ogni sua opera, anche quella più apparentemente “convenzionale” (concetto sempre relativo quando si parla del Maestro giapponese) contiene elementi fuori dagli schermi, una sovversività di fondo che, da sempre, caratterizza la sua forma espressiva. Per molti versi, la pellicola è un compendio, quasi un “best-of” del suo corpus filmico, in cui le tematiche ricorrenti si ripresentano, con una chiave umoristica che è più che altro di superficie: Yakuza Apocalypse può far sorridere per la sua eccentricità ma, a ben guardare, parla del concetto cardine presente in ogni sua opera, ossia la morte. Morte che viene qui esorcizzata dalla sua controparte, la “non-morte”, quindi il vampirismo.

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Si parte dalla yakuza, filo rosso presente nella maggioranza dei suoi film, vista nel senso più tradizionale del termine: Kamiura (Lily Franky) è il boss di una cittadina, ne protegge gli abitanti e ha come regola d’oro quella di non toccare i civili; è d’uopo ricordare che la mafia nipponica nacque, alle origini, come società di mutuo soccorso, e per quanto determinati valori etici si siano disgregati nei clan contemporanei, restano base portante dell’idea di crimine organizzato made in Japan. Kamiura è considerato immortale, in quanto invincibile e immune alle pallottole: il suo “segreto” è vecchio quanto il mondo, poichè il boss è, in realtà, un vampiro. In città giungono i membri del cosiddetto “Sindacato Internazionale del Crimine”, con un personaggio che reca con sè una piccola bara (citazione ovvia, considerato anche l’homage rappresentato da Sukiyaki Western Django) e un mago delle arti marziali (interpretato da Yayan Ruhian, anche nella vita maestro di Pentjak Silat, disciplina indonesiana, e conosciuto per i due The Raid). La loro richiesta è che Kamiura torni a far parte del sindacato: al suo no, viene smembrato, ma prima di morire trasmette il suo “dono” al giovane Kageyama (Hayato Ichihara), membro del suo clan, dileggiato dagli altri poichè la sua pelle sensibile gli impedisce di marchiarsi con i tatuaggi di rito. Kageyama ora è un vampiro, e il suo scopo sarà di sconfiggere coloro che hanno ucciso il beneamato capo e protettore. Come già si accennava, l’opera racchiude molti stilemi ricorrenti del cinema di Miike, in cui spicca la figura dell’outsider, il diverso, povero o emarginato, che unisce le forze con altri simili a lui per combattere un Male dalle diverse sfaccettature; la battaglia assume qui anche i connotati della lotta di classe, poichè i cittadini più deboli, tra cui un ragazzino orfano, uniti alla yakuza “buona”, quella che li ha sempre protetti, si scontrano con il crimine vero e proprio, crudele e spietato.

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C’è una frase che può fornire una chiave di lettura efficace non solo per l’intero film, ma anche per la forma mentis delle opere di Miike prese in toto: Kageyama decodifica un messaggio segreto, il cui significato è “stay foolish”, ossia “rimani stupido”. Affermazione da intendere in senso ampio, in cui la parola foolish rappresenta l’essere sciocchi e folli ma anche la semplicità d’animo e, soprattutto, la libertà assoluta, la medesima libertà espressiva che il cineasta ha conquistato e consolidato nel tempo. In questa zona franca, un territorio in cui tutto è possibile ed è permesso, vediamo avvicendarsi demoni kappa dall’alito insopportabile, donne il cui cervello si dissolve in liquido che esce dalle orecchie, uomini tenuti in ostaggio al fine di prelevarne il sangue che è nutrimento vampirico, a cui viene fatto passare il tempo lavorando a maglia. Su ogni cosa, su qualsiasi apparente bizzarria, che nel cinema di Miike è consuetudine e al tempo stesso stupisce ogni volta, spicca colui che è definito “il più pericoloso terrorista del mondo”: un pupazzo con le fattezze di rana, che combatte, uccide, paralizza gli avversari. Un nonsense che, in realtà, è perfettamente funzionale al contesto, altro filo rosso della poetica del cineasta: l’assurdo, l’insensato, ciò che pare addirittura risibile, nei suoi film acquisisce forma e significato, un senso compiuto che fa quadrare il cerchio e rende l’opera unica ed irripetibile.

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Il finale quasi “abrupt” è chiusa ideale di un’opera schizoide e mirabile, in cui morte, dolore, vendetta e non-morte si fondono fino a formare un oggetto filmico esemplare nella sua unicità: anche questa, ovviamente, è caratteristica portante del cinema di Miike. Stay foolish, and stay free.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 12/11/2015

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