Westworld 1x03 - The Stray

Tra enigmi e transmedialità, Westworld mostra tutte le ambizioni di un progetto dal chiaro imprinting abramsiano.

Una delle cose che Lost riusciva a fare con maggior successo era stimolare la nostra capacità di formulare domande e, conseguentemente, interpretazioni, adoperando a tal fine una sorta di vis enigmatica, di carisma del mistero, per sferzare l’immaginazione e ottenere un duplice risultato: sfidare il desiderio di conoscenza e la curiosità dello spettatore, e al contempo sospingere più direttamente anche il plot.

Da questo punto di vista, Westworld mostra la profonda influenza del suo produttore esecutivo J.J. Abrams, interessato alla magia e all’arcano sin dai tempi in cui si dilettava come prestigiatore; una passione condivisa non a caso con Jonathan Nolan (con cui aveva già lavorato per Person of Interest), showrunner, insieme a Lisa Joy, della serie targata HBO.

È proprio l’enigma della verità, intesa etimologicamente come l’approdo finale di un processo di disvelamento (a-lètheia, non nascosto, evidente), a spingere i fan ad ipotizzare teorie e a produrre supplementi di pensiero e scrittura sui forum (a creare, in una parola engagement), a mandare Jack, John, Kate, Hurley o Sayid nella foresta, così come è la brama di accedere al livello più profondo del gioco di Westworld a muovere i passi dell’Uomo in Nero interpretato da Ed Harris.

Sin dal nucleo fondamentale del soggetto, a causa cioè della presenza di robot indistinguibili dagli umani, Westworld ci pone immediatamente dinanzi all’ambiguità sullo statuto di verità di ciò che spettatori e protagonisti si trovano dinanzi nella propria esperienza all’interno di un parco divertimenti che, ci avevano già avvertito nella seconda puntata, ci sembra di conoscere, quando invece non abbiamo “la minima idea di cosa possa nascondere”.

Con The Stray Westworld conferma l’impressione di trovarsi al cospetto di un prodotto di quella che Romagnoli definiva su Repubblica la “meglio tv” americana, una di quelle storie che stanno rimpiazzando il bisogno di una grossa fetta di letteratura perché restituiscono forme schematiche del mondo riuscendo nel contempo a stimolare adeguatamente l’uomo della società postindustriale, quello che per dirla con McLuhan vive “col cervello fuori dalla testa e i nervi fuori dalla pelle”. Un’opera profondamente transmediale, pienamente inserita in un crocevia di fitte relazioni con altre forme di narrazione che vanno da quelle più moderne, come lo storytelling videoludico, a quelle più classiche, come per l’appunto il romanzo o l’arte letteraria tout court. Westworld guarda alla struttura aperta degli open world stile Red Dead Redemption così come è infarcita di riferimenti intellettuali (basti pensare alle citazioni da Shakespeare di Abernathy, padre di Dolores). È espansiva ed ambigua, si regge su un media-landscape grande almeno quanto il suo parco divertimenti, un paesaggio mediale sterminato dove finzione e realtà, interiorità ed esteriorità, immaginario collettivo e personale si mescolano sempre più, assumendo forme sempre più liquide. Serie tv come questa ci permettono di sperimentare nuovi modi di leggere e raccontare, sono luoghi di riconfigurazione per lo spettatore come per l’arena televisiva, di riflessione psicologica, antropologica, umana ma anche squisitamente narratologica e metalinguistica.

Una cosa indubbiamente difficile, come è “difficile inseguire l’ispirazione”, si direbbe parafrasando una della frasi più significative pronunciate nel corso della puntata dal demiurgo Robert Ford (Anthony Hopkins), direttore creativo del parco delle attrazioni di Westworld, ma proprio per questo interessante e necessaria per progredire. L’enorme ambizione di tutti i progetti messi in campo da Abrams o Nolan è quella di voler riflettere su temi complicati (proprio questa parola ricorre più volte nelle parole di Ford quando si sforza di spiegare il fine ultimo del lavoro all’interno del parco): la dialettica caos/ordine, la presenza di Dio o di un’entità superiore che dà vita e ci affida alle gabbie del mondo, il libero arbitrio e il diritto all’autodeterminazione che danno la possibilità di uscire fuori da quelle stesse gabbie, anche solo grazie ad un errore o all’improvvisazione (“l’errore è ciò che permette l’evoluzione delle specie senzienti” dice il capo della divisione dedicata alla programmazione Bernard Lowe ripetendo un concetto espresso dal mentore Ford, e l’improvvisazione è un concetto cardine per spiegare i comportamenti anomali degli automi). E poi la memoria, il dolore, l’identità in relazione alla narrazione, la coscienza, veri e propri capisaldi della terza puntata. Il placido Peter Abernathy, padre della protagonista femminile alle prese con il ritrovamento della foto di un visitatore, e il sadico Walter, l’host fuorilegge che fa fuori tutte le attrazioni che lo hanno ucciso in passato, mostrano i primi segni di squilibrio proprio nel momento in cui cominciano a ricordare, ad avere coscienza di quello cui sono stati sottoposti. Diventano reali grazie alla sofferenza (c’è una linea di dialogo affidata ad Ed Harris che esprime esattamente questo concetto).

Forti di un nuovo discernimento innescato proprio dalla memoria – primo gradino della piramide concettuale messa a punto dal misterioso ex partner di Ford, Arnold, per spiegare gli stadi della coscienza – gli androidi iniziano così a scrollarsi di dosso l’immobilità in cui sono stati relegati attraverso il loop delle loro backstories e ad agire fuori dal recinto della semplice mimesi e del copione prestabilito, lasciando presagire una escalation di aggressività, suggerita e per certi versi predisposta dall’entrata in scena del nuovo villain Wyatt, e rinvigorita esteticamente dalle tinte horror che il finale della terza puntata ha sovrapposto alla già abbondante violenza del mondo di Westworld.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 22/10/2016

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