Vijay, il mio amico indiano

La gravità di se stessi, il desiderio di fuggire dalla propria identità, sono temi ricorrenti nella letteratura, noi italiani lo sappiamo bene grazie al Il fu Mattia Pascal del nostro Pirandello; e i funerali possono essere, tra le lacrime sincere e quelle di coccodrillo, vere rivelazioni sui reali sentimenti che albergano nelle persone che a parole dicono di amare con ardore l’amico, il padre o il marito defunto. Vijay, il mio amico indiano parte da qui: per un fraintendimento Will (Moritz Bleibtreu), un attore prestato alla tv per bambini, con un matrimonio spento e una giovane figlia distante, viene creduto morto in un incidente ma, insoddisfatto della propria vita, invece di spiegare l’equivoco si traveste da Vijay, un elegante e posato indiano, per andare a porgere le proprie condoglianze alla distrutta vedova Julia (Patricia Arquette). Il desiderio di mettere alla prova l’affetto dei suoi cari è tale da spingere l’uomo a continuare la commedia con conseguenze inaspettate. Vijay è infatti così ben interpretato da Will da spingere sua moglie a innamorarsene, e lui stesso inizia a temere di aver prodotto una versione migliore di sé così popolare da non poter più tornare indietro.

Travestimento ed equivoci, Vijay, il mio amico indiano è tutto qui. Una sola idea stiracchiata per un’ora e mezza nella speranza che possa bastare un canovaccio abbastanza improvvisato, come il camuffamento del protagonista, a conquistare lo spettatore o almeno strappare una sufficienza. E invece no, e il ricordo del bel Irina Palm – con una splendida Marianne Faithfull emersa rediviva dai Favolosi Anni Sessanta in versione nonna amorevole – dello stesso Sam Garbarski rende più pesante la delusione. Di quella delicatezza che trova il sorriso in un racconto non convenzionale non è rimasto nulla, anzi, invece di rischiare Sam Garbarski decide di vincere facilmente senza approfondire il potenziale dramma di un uomo costretto dalla morte a rispecchiarsi nella propria mediocrità. Il registro è dunque quello della risata facile che si consuma in un istante, il che rammarica dato che le aspettative create da Vijay, un personaggio costruito a tavolino e quindi plasmabile a immagine del più perfetto eroe romantico, avrebbero potuto essere la base di un racconto ben più complesso e pungente.

Will non piace molto alla sua famiglia, anche se, roso dall’insicurezza, non si accorge di credersi più disprezzato di quanto lo sia in realtà; Will infatti non piace soprattutto a se stesso, causandosi nel tempo una disistima che lo ha facilmente spinto alla recitazione come sollievo dal proprio sofferto Io. Ma recitare tutto il tempo il ruolo di una persona migliore equivale automaticamente a diventare migliori? È strano come allo sprovveduto marito venga facile, quando impersona Vijay, diventare per gli altri colui che non riusciva a essere quando era Will; d’improvviso il suo egocentrismo, la sua pigrizia affettiva vengono meno. Riesce ad ascoltare i suoi cari non perché lo vuole, ma perché il suo personaggio lo impone, ma nel farlo capisce quanto prima fosse sordo alle loro esigenze. Il quesito irrisolto è se questa capacità di sapersi dedicare agli altri appartenga solo a Vijay o se anche Will possa farla sua senza travestirsi. Il film sorvola indifferente su tutte queste domande, raggiungendo un risultato raffazzonato con rapide gag senza preoccuparsi di spiegare se la vera conquista di Will possa essere fare pace con se stesso o cancellare in un gesto tutte le proprie colpe, i propri difetti e fallimenti in una nuova identità. Rimane solo il finale a lasciar spazio a una velocissima stoccata amara su come ogni ruolo, per un attore come per un individuo comune, sia destinato a divenire una gabbia dorata dal quale non c’è uscita.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 16/08/2014

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