Venzia 2013 / Locke

Potremmo definirlo un caper movie sui generis Locke. Dopotutto è anche un film sul controllo, sul tempo, sul diavolo nei dettagli e tutto quello che va come non deve. Panificare e mettere in scena una rapina del resto è per eccellenza l’esemplificazione cinematografica del tentativo da parte dell’uomo di controllare il tempo, di possedere la realtà. Di studiare il problema, dissezionare i pro e i contro, prevedere ogni dettaglio e variabile affinché tutto vada come previsto. Anche se ovviamente non accade mai. Perché nonostante tutto il nostro ingegno e impegno possiamo sì plasmare il fato, ma di certo non averne il controllo assoluto.

E’ contro questo naturale precipitare nel caos che si batte Ivan Locke, con la razionale determinazione illuminista che già vive nel suo nome. Ambientato quasi in tempo reale, Locke racconta soltanto il viaggio in macchina da A a B di Ivan Locke, e dei tentativi di tenere assieme tutti i pezzi della sua vita, sconvolta da una decisione radicale presa apparentemente per istinto. C’è solo Tom Hardy nel film dello sceneggiatore di La promessa dell’assassino, Steven Knight, circondato da fantasmi veri e immaginari, voci al telefono con cui parla incessantemente durante il suo viaggio, voci da convincere e pregare e minacciare e istruire e salutare. Completamente da solo per tutta la narrazione, Hardy regge il film con una consapevolezza e maestria che possono esser proprie solo di un grande attore, maturo e completo. Il suo Locke del resto è intrappolato alla guida, e il turbine di emozioni che lo attraversa si palesa nei piccoli gesti, nello sguardo insofferente che corre in tutte le direzioni e nelle mani che stringono il volante e asciugano il naso e gli occhi e nella voce, tonalità calda e ipnotica che varia come un sismografo dell’anima. Tom Hardy è l’ideale vincitore della Coppa Volpi, se qualcuno si fosse preoccupato di mettere Locke in concorso.

Assodata la performance micidiale di Hardy, croce e delizia di Locke è Steven Knight, che nel passaggio dalla carta alla macchina da presa si imprigiona in una struttura rigida potenzialmente mortale, che alla triplice unità aristotelica aggiunge la rappresentazione di un solo personaggio. Per di più sede unica dell’azione è una macchina in moto, lanciata su di un’autostrada notturna che oscilla tra il materico, vibrazioni della macchina e sirene e clacson, e l’astratto, l’onirico dei corpi i cui confini si scompongono nell’oscurità mentre i riflessi di luce si sciolgono come neve al sole. La macchina da presa è quasi sempre dentro la vettura, inchiodata al corpo di Hardy, ma nonostante tutti questi fattori Locke è un film dal ritmo perfetto, essenziale, da manuale. Che è poi indice di quello che è forse l’unico effettivo limite del film, l’estrema padronanza di scrittura di Knight, che grazie al suo talento e alla conoscenza assoluta del mezzo prepara una sceneggiatura studiata al millimetro, decisamente efficace ma incapace di occultare i meccanismi interni che la animano. E ciò emerge con evidenza nel rapporto fantasmatico tra Locke e lo spettro del padre, reminiscenza che abita una lontana parte memoriale della sua coscienza, infezione che ha dato alla luce quella massiccia sovrastruttura super-egoica che sprona Locke all’azione e di fatto fa partire tutto il film. Nonostante quest’eccessivo svelamento, che rende fin troppo palesi tutte le motivazioni del protagonista con monologhi un po’ forzati e di maniera, Locke è un film che difficilmente lascia indifferente lo spettatore, creando una connessione emotiva le cui vibrazioni perdurano a lungo dopo la visione. E cuore del tutto non può essere che lui, Ivan Locke, e la sua dolente condizione umana.

Contradditorio, egoista, totalmente super-egoico, Ivan Locke è un personaggio meraviglioso, definitivamente umano, troppo umano. Nella notte che anticipa la più importante giornata della sua carriera, nella quale prenderà finalmente forma il progetto cui lui e decine di altri uomini hanno lavorato per lungo tempo, Locke abbandona tutto per raggiungere l’amante (di una sola notte), accompagnarla nel parto e riconoscere il bambino. Per farlo dovrà rinunciare al suo lavoro e probabilmente alla sua famiglia, cui dovrà confessare il tradimento, ma quella che è apparentemente un’azione sacrifica e altruista nasce in realtà da meccanismi psichici spietati, dovuti all’abbandono paterno e alla volontà di non trasmettere tale peccato originale al nuovo figlio. Locke è disposto a rischiare di sacrificare moglie, figli e carriera per spezzare il cerchio ed evitare che i peccati dei padri ritornino nei figli, ma la sua “buona azione”, la sua presa di responsabilità, non può che tornare come un boomerang non solo su di lui ma su tutti quelli che lo circondano. Sacrificandosi Locke si assoggetta del tutto alla propria parte super-egoica, che gli dice cosa è giusto e corretto fare, imprinting morale con il quale riscattarsi da una condizione di inferiorità e colpa portata evidentemente addosso fino ad allora. Ma è difficile giudicare Locke, difficile non empatizzare con la sua ferrea volontà di assumere ancora una volta il ruolo di padre, ad ogni costo e nonostante tutto. Non creerà magari una nuova famiglia, non riuscirà forse a riconquistare quella vecchia, non risponderà alle attese del suo nome illuminista e del suo lavoro da ingegnere, demolendo di fatto invece di costruire, ma in fondo, chi siamo noi per giudicare?

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 05/12/2014

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