Venezia 72 / Marguerite

Il film di Xavier Giannoli pare più interessato alla singola scena che alla solidità dell’insieme, correndo il rischio di depotenziare continuamente la sua stessa identità.

Parigi brucia di fermento e cultura, in balìa delle avanguardie che infiammarono gli anni venti della capitale. Strade e locali ribollono di scrittori, pittori, musicisti e artisti di ogni tipo. Le basi sacre della cultura perbenista, i codici del bello formulati dai padri borghesi, le fede cieca nella patria e nel buongusto, iniziano a sgretolarsi e a vacillare sotto gli occhi dell’Occidente.

Lontana da tutto questo, rinchiusa all’interno di una bolla dove il tempo sembra non passare mai, vive la baronessa Marguerite insieme a suo marito, l’aristocratico Georges Dumont. Il castello lussuoso in cui abitano è un’isola fuori dal mondo, una culla protettiva che la baronessa percepisce alla stregua di una gabbia. Con una passione smodata per la musica e il sogno di poter cantare davanti alle platee più importanti del mondo, Marguerite si esercita di continuo. Caparbia, tenace e infinitamente colta, l’unico problema della baronessa è quello di non possedere quella che si direbbe un’ugola d’oro: è anzi completamente priva di intonazione, tanto che la sua voce causa nel pubblico sentimenti di fastidio e ilarità. Ma i suoi spettatori sono un manipolo ristretto di aristocratici che fingono di apprezzare le sue doti canore per poi deriderla a sua insaputa. Contro il volere del marito, Marguerite persevera, nella speranza di poter rompere la sfera di cristallo in cui vive e “scendere” finalmente nel mondo. Nel suo sogno folle e arditissimo la baronessa diventerà un vero e proprio simbolo dadaista, un geniale scherzo duchampiano, lo strumento politico ed eversivo con cui distruggere, dal suo interno, il mondo stesso dell’arte borghese. Piomberà nei caffè parigini con quella forza dirompente ed esilarante che potrà annientare i gusti e le basi stesse del pubblico pagante. Marguerite diviene, inconsapevolmente, la voce stonata di un radicale cambiamento estetico. Peccato che a rimetterci sarà sempre lei, fenomeno da baraccone della nuova società dello spettacolo, figura manipolata a sua insaputa per diventare la barzelletta della Francia.

Il film di Xavier Giannoli parla di questo e di moltissimo altro: è interessato alle leggi spietate dello show, all’anima dei freaks e alla forza dei disadattati, ai movimenti della storia, all’azione salvifica (o distruttiva) della menzogna, ai rapporti intimi governati dal silenzio e dalla vergogna, all’edificazione allucinata di un futuro impossibile, alle ipocrisie delle classi più abbienti (ma non solo). Il problema è che, nella sua eccentricità, Marguerite contiene troppi film al suo interno, troppi umori, troppe situazioni eterogenee, che costruiscono un collage di figurine che non ha mai veramente il coraggio di trovare una propria identità. Raramente il film riesce a bucare la superficie per addentrarsi nella follia eversiva e vitalissima della sua protagonista. Anzi, Giannoli è così preoccupato della trovata, del siparietto, dell’istante, da finire per sbilanciarsi, per perdere una visione d’insieme, un equilibrio, una struttura, o, meglio ancora, un proprio statuto cinematografico. In mezzo ci sono grotteschi rigurgiti fassbinderiani (la sequenza pseudotrash del maggiordomo che si scopa la donna barbuta), fallite ambizioni iconoclaste (edulcorate dall’eleganza formale della messa in scena), e ovviamente quella materia incandescente, affascinante e ricca di spunti narrativi, che non riesce mai a essere gestita, domata, coltivata dal proprio regista. Tra sequenze da opera lirica e momenti da cinema muto (il finale su tutti), quello che ne esce fuori è un gradevolissimo, ma innocuo, pasticcio.

Rimane un’unica certezza: l’atto di ascoltarsi con le proprie orecchie è la tragedia più grande, morte dei sogni e crepuscolo di ogni desiderio,

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 05/09/2015

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