Venezia 72 / Beasts of No Nation

Primo film Netflix di portata hollywoodiana, quello firmato da Fukunaga è un controverso abisso di violenza, tra eccessi di costruzione formale e slanci di autentico orrore.

“Non è lontano il giorno in cui il nuovo lavoro di un regista di peso passerà direttamente attraverso lo streaming on demand di Netflix, magari in parallelo ad una distribuzione cinematografica campionata.”

Così scrivevamo solo pochi mesi fa nella nostra copertina dedicata al gigante californiano, descrivendo inconsapevolmente la natura ibrida di Beasts of No Nation, ennesima prova di come Netflix sia oggi una realtà inaggirabile per chiunque si interroghi sul futuro della fruizione cinematografica.

Quello presentato da Cary Fukunaga nel Concorso veneziano è infatti un film che godrà di una particolare distribuzione su due livelli, sala e contemporaneamente streaming online sulla piattaforma americana, un doppio passo che forse contiene in sé la risposta alle sfide del cinema contemporaneo (pirateria, crisi dei biglietti, concorrenza di altri media) – almeno per quanto riguarda quei film che non sfruttano la sala per un discorso anzitutto sensoriale. Certo, questa scelta ha avuto i suoi costi – per non aver rispettato il canonico periodo di 90 giorni dedicati esclusivamente alla sala il film è stato boicottato dalle quattro maggiori catene di cinema americani – tuttavia c’è da pensare come presto tale modalità possa diventare una delle prassi chiave per la fruizione cinematografica dei prossimi anni.

Chiusa questa necessaria parentesi, resta di fronte allo spettatore un film duro e difficile, un racconto di de-formazione che lascia ben poco all’immaginazione e cala le mani in una materia incandescente, forse troppo per un autore comunque alle prime fasi della sua carriera come lo è il regista di True Detective.

Tratto dal romanzo di Uzodinma Iweala, figlio di un ministro nigeriano impegnato da tempo nel recupero dei bambini soldato, Beasts of No Nation nasce da un desiderio antico di Fukunaga, impegnato a portare avanti il progetto dal 2007. Del resto per chi ha avuto modo di vedere i primi due film del regista, Sin Nombre e Jane Eyre, la scelta appare estremamente coerente e svela un percorso autoriale evidente nella sua diversità. Quasi nascesse da un portato genetico dovuto alla propria storia familiare – americano figlio di padre giapponese e madre svedese – il cinema di Fukunaga vive ad oggi di una variazione geografica estrema, un peregrinare che lo ha portato dal Messico all’Africa Centrale passando per le brughiere dell’Inghilterra più gotica, e tuttavia in questo percorso ogni tappa si costruisce attorno ad una sorta di fuga, alla relazione problematica tra un individuo e il suo contesto, spesso oppressivo e violentemente deformante.

Così era per il ragazzo fuggitivo di Sin Nombre (a ben vedere una prima versione del protagonista di Beasts Abu) e così è anche per Jane Eyre, spirito indomito in costante conflitto con i dogmi della società vittoriana. Alla terza prova la cornice geografica diventa il cuore nero dell’Africa, un paese che si intuisce essere la Nigeria ma di cui non vengono mai date precise coordinate storiche. Quest’assenza di un contesto specifico era già parte del romanzo di Iweala, ma è evidente come oggi Fukunaga voglia anzitutto parlarci dell’atrocità dei bambini soldato in relazione al presente, a partire dall’escalation generata dall’Isis e da Boko Haram. Questa volontà lo porta ad una rappresentazione diretta e spettacolare della violenza, un’istanza di denuncia che si sposa sul piano cinematografico con il tentativo di confrontarsi con la tradizione più alta del cinema bellico d’autore, il Coppola di Apocalypse Now e soprattutto il Malick di La sottile linea rossa.

Nel momento in cui un film si confronta con un tema così atroce come la formazione di un bambino soldato il cuore del discorso non può che diventare la rappresentazione della violenza, e di conseguenza il senso del dolore. Evitando il ricorso ad una retorica esterna e sovrapposta, la morale dello sguardo vive nell’immagine in sé.

Da questo punto di vista Beasts of No Nation è chiaramente un film infernale, un racconto di tenebre conradiane delle quali Fukunaga decide di non risparmiare nulla. Il risultato è una galleria di orrori che stravolge ed esalta il senso anfetaminico della guerra, con Abu che attraversa questa parte della sua vita come una lunga allucinazione tossica. Tuttavia la coppoliana messa in scena della spettacolarità drogata dell’esperienza bellica apre le porte al rischio di enfatizzare esteticamente la violenza; da una parte la visione di Beasts conferma l’ottimo livello registico ormai raggiunto da Fukunaga, ma d’altra parte scopre il fianco ad un senso di artificio, di eccessiva costruzione cinematografica.

Impegnato anche come sceneggiatore e direttore della fotografia, Fukunaga scandisce benissimo la progressiva perdita di umanità del suo protagonista Abu,schiacciato tra due fazioni e con una famiglia spezzata, in parte fuggita e in parte sterminata, ma il suo rapporto con la violenza rischia a volte di farsi davvero troppo curato sul piano formale. In questo però non bisogna leggere una malevola furbizia volta allo shock facile, piuttosto il tentativo di uno sguardo non ancora maturo. In questa direzione vanno visti anche i riferimenti cinematografici che ricorrono nel film, a volte estremamente pertinenti e riusciti (la miniera d’oro come costola di Apocalypse Now), altre volte gratuiti ma soprattutto artefatti (la voce narrante e il finale alla Malick, usato per risolvere l’evidente problema a trovare un finale all’altezza). E’ come se, posto di fronte una materia troppo incandescente, Fukunaga abbia sentito la necessità di ricorrere a strutture estetiche pre-esistenti, stampelle derivative nelle quali trovare la solidità necessaria ad affrontare la complessità della sfida intrapresa.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 04/09/2015

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