Venezia 72 / 11 Minut (11 Minutes)

Il nuovo film di Jerzy Skolimowski è il requiem definitivo del reale, sistema perfetto spezzato da un’anomalia che ci distruggerà. O forse no?

Ricordate l’onda anomala che avrebbe dovuto spazzare via tutto nel finale originale di Omicidio in diretta? O la chiusura eversiva, anarchica, quasi demenziale di Dead or Alive dove una sfida tra clan yakuza si trasformava in un conflitto globale?

Il vero Apocalypse now è per Jerzy Skolimowski l’effetto domino di un’intera realtà narrativa, la reazione a catena pronta a far deflagrare l’immagine digitale, a farla, letteralmente, implodere.

Cos’è 11 Minut (11 Minutes) se non un lucidissimo – e spietato - requiem del reale, una grande beffa al cinema d’azione americano ma, soprattutto, il racconto di una scomparsa che s’inverte in scomparsa del racconto? A svanire è il mondo intero, annegato in un oceano di pixels in febbrile, ordinatissimo movimento. Il dezoom è, ancora una volta, il codice cinematografico di un’epifania, il disvelamento progressivo di una realtà astratta, geometrica, completamente inqualificabile. Il mondo non è più la proiezione solaristica di quasi mezzo secolo fa, ma un freddo, unitario puzzle virtuale. Il corpo stesso si scopre fatto di pixels: la carne digitale, debolissima, è manovrata da un deus ex machina sconosciuto, da un’entità demiurgica che disvela il vero fantasma, il vero scheletro del reale.

Via la pelle, fuori i pixels!

Come negli ultimi Cronenberg, come nello Schrader di The Canyons, come nel Carax di Holy Motors, ci troviamo all’interno delle sfere apocalittiche del post-cinema, nei territori vertiginosi dell’inumano. Il film inizia prima degli undici minuti del titolo, eppure la catastrofe sembra già avvenuta. L’azione, precipitata nella bassa definizione dell’immagine, procede a velocità extracorporee con la stessa liquidità, la stessa inconsistenza della bolla di sapone che appare profeticamente: corpo, volume, massa, supporto, tutto nel film è destinato a deflagrare, a rallentare, a infrangersi fino a smaterializzarsi nell’immagine (o meglio in ciò che forma l’immagine digitale, la sua stessa radice numerica). Se nei primi minuti assistiamo alle riprese eterogenee di tablet, cellulari, apparecchi mobili, telecamere di sorveglianza, negli ultimi (quelli che precedono la rivelazione finale) crolla il sistema nodale dei ventiquattro fotogrammi al secondo. C’è bisogno di altre velocità, di altri tempi, di altre durate (l’elegante, sinuosissima danza ralenti, caduta parossistica della narrazione, alterazione tortuosa della durata, astrazione erotica della forma).

Pensiamo agli undici minuti del racconto. Alle 17.05 un aereo vola a bassa quota, sfiorando i palazzi, in un déjà vù catastrofico continuamente disatteso. Se il cinema è morto l’undici settembre, se la visione ha perso il suo soggetto, il problema è stabilire come potrà continuare a morire ogni giorno e quale sarà, alla fine, la traccia che lascerà. Nel cielo di Varsavia appare allora un punto nero, un pixel morto, e questa macchia di oscurità sarà l’unica cosa che resisterà all’abisso numerico.

Il film di Skolimowsi mostra in fondo il mondo come sistema perfetto di punti, struttura impeccabile che ingloba tutto, che guarda tutto, che tiene in sé e nega ogni cosa allo stesso tempo. Eppure quel puntino nero appare come un ufo, un’entità sconosciuta, uno spazio ignoto privo di profondità (la tristissima, nichilistica piattezza del numero). Potremmo anche dire un errore del sistema, un’irregolare, stranissima anomalia (ricordate la prostata asimmetrica di Cosmopolis?), un bug metafisico che provoca il collasso stesso della realtà. Un virus ci annienterà. O, forse, un grande occhio che tutto spia, tutto vede, tutto è: basti pensare alla figura demiurgica e lynchiana che profetizza la fine del mondo su uno schermo (siamo nell’era del controllo, dove l’occhio che vede è sempre l’occhio che uccide).

Il tempo è finito, tutto è già stato eppure tutto continua a ripetersi. Narrazioni già scritte, personaggi già conosciuti, corsi e ricorsi narrativi ed esistenziali. L’abbiamo già visto, si dirà, come se fossimo condannati a un continuo reiterarsi degli stessi, identici stilemi: a salvarci – o, più probabilmente a distruggerci - sarà la goccia nera piovuta sulla tela di un pittore. Ancora l’onda anomala. O, più semplicemente, quella reazione a catena che non ha nulla a che fare con il caso, ma assomiglia più a una distruzione totale, a un vero e proprio vizio di forma, a un annullamento stesso della visione.

Le immagini deflagrano, il tempo scorre in ralenti roboanti ed elegantissimi, dove l’azione si cristallizza in una caduta libera, in un solenne, ridicolo, sublime memento mori. 11 minut diviene allora il film della fine, quello che spezza definitivamente il sistema di oggettive e soggettive cinematografiche, coniando una terza categoria, un terzo occhio, un punto nero. Del resto cosa sono i dispositivi mobili con cui parte il film se non quegli sguardi che spezzano i codici stessi del cinema e della visione tout court? Come definire un video-selfie? Come stabilire lo statuto, il punto di vista, di una telecamera di sorveglianza? A chi appartiene la visione? Si tratta di una soggettiva, di un’oggettiva, oppure di qualcosa che nega, che supera entrambe le cose? Resettata ogni declinazione dello sguardo, non rimangono che tutti gli sguardi insieme.

Il paradosso è che, nel suo split-screen esponenziale, nella sua divisione dello schermo in infinite quantità di esistenze, storie, vissuti, azioni, il virtuale finisce per trasformarle in un unico quadro, in un’unica immagine, in un ritorno spaventoso, annichilente all’unità perduta (un film sulla rete che noi siamo, si potrebbe anche dire). Come in un imbuto, il mondo è imploso. Ma siamo sicuri che sia poi la fine di tutto? Siamo sicuri che il film intero non getti le basi, ancora più spaventose, di un nastro che si riavvia continuamente?

Undici minuti di eterno presente. Tutto il resto non esiste più.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 10/09/2015

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