Venezia 2013 / Under the Skin

Evanescente e ipnotico, Under the Skin si pone tra i due poli della fantascienza cinematografica: quella allegorica americana, in cui si costruisce e racconta l’alieno per raccontare noi stessi, e quella metafisica sovietica, in cui l’interiorità prende direttamente forma senza intermediazioni narrative. L’aliena dalle vesti umane interpretata da Scarlett Johansson sembra in un certo senso una manifestazione “solarisiana”, aggregato materico dei desideri sessuali degli uomini che incontra, proiezione ideale di un femminile disponibile, meraviglioso, accogliente e infine anche vulnerabile, al cui interno vive però un’entità potente e indipendente che diviene mostruosità per un uomo non più dotato del ruolo dominante. La bellezza che cela un’alterità intelligente e autonoma, e quindi mortale.

Attorno a tale rappresentazione Jonathan Glazer costruisce una narrazione fortemente ellittica e stilizzata, la doppia parabola di un alieno che si fa uomo, di un predatore che si fa preda. Il personaggio della Johansson infatti paga sulla propria (vera) pelle la decisione di abbandonare la caccia agli esseri umani e la propria natura aliena per tendere invece a quella umana, come se la carne che indossa sia anche portatrice di un’assoluta nostalgia per l’umano, una tensione all’assimilazione. Avvicinarsi a noi però può non essere poi così piacevole.

A nove anni da Birth – Io sono Sean Jonathan Glazer torna con un progetto covato per molto tempo, figlio di numerose difficoltà personali e lunghe lavorazioni, specie in sede di montaggio. E il motivo è fin troppo evidente. Dopo un’introduzione affascinante e da subito fortemente inquietante, tra Kubrick e video-arte, il film sembra rinchiudersi in una casa degli specchi. A parte la fenomenale soluzione visiva con cui viene risolta l’uccisione delle vittime da parte dell’alieno, svelata poco a poco con un elegante esercizio di ripetizione e variazione, la narrazione inizia a girare terribilmente a vuoto, cercando un senso in soluzioni sospese e minimaliste che nella loro pretesa di pseudo-autorialità sviliscono quanto di buono mostrato fino ad allora e riversano sul film un’irritazione dannosa e immeritata, almeno rispetto alle sue potenzialità e al sentito tentativo di fare un cinema anti-narrativo e metaforico.

Ma l’aspetto peggiore di questa vacuità di forma e assenza di direzione è che con essa si sfilaccia fin quasi a perdersi ogni possibile substrato allegorico del film, che pare così sospeso tra tante suggestioni ma incapace di portarne a casa almeno una. C’è l’alieno, c’è un femminile mostruoso, c’è l’empatia che si fa debolezza o addirittura una parabola sulla piaga dell’AIDS, che si può leggere nella costante ricerca da parte della protagonista di vittime maschili giovani e sole, adescate con la promessa di un rapporto sessuale e poi divorate. Ma nulla di tutto questo alla fine trova una sua forma compiuta e coerente, la fascinazione cede il posto al sospetto del bluff, del fumo negli occhi lanciato da un film con tante cose da dire ma pochi modi per dirle. Tra i quali inoltre un formalismo derivato dall’esperienza del regista nel videoclip che appare sempre dietro l’angolo, anche nelle poche sequenze particolarmente riuscite.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 06/12/2014

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