Venezia 2013 / Philomena

Dopo tante sofferenze e atrocità il concorso presenta per la prima volta un’opera dal respiro decisamente più commerciale (distribuisce la Weinstein Company), che nonostante racconti di traumi indicibili parla al grande pubblico servendosi di un linguaggio cinematografico semplice, ma non per questo sciatto, che guarda decisamente al passato. Niente avanguardismi né riflessioni teoriche di sorta: quello che conta nel cinema di Stephen Frears, e in special modo in quest’ultimo Philomena, molto applaudito forse con un po’ di generosità da pubblico e critica, è il racconto cinematografico inteso come spettacolo di intrattenimento e studio di caratteri contrapposti destinati ad incontrarsi e a imparare qualcosa dall’altro.

Cinema dell’esperienza e dell’incontro dunque, leggero e gradevole come la letteratura rosa che la protagonista Philomena ama leggere durante il viaggio che la porta alla ricerca del figlio strappatole dalle mani in tenera età dalle suore di un convento.

Il film segue un canovaccio dalla solida struttura narrativa che sembra andare avanti quasi da solo, sicuro per la sua strada accompagnato da due interpreti sublimi, Judi Dench e Steve Coogan che si sfidano con numerose battute sagaci che vertono sul valore della fede e il primato della ragione, la forza del perdono e quella dell’indignazione civile. Due caratteri contrapposti: da un lato Philomena, donna irlandese di umili origini cresciuta in un orfanotrofio a colpi di padre nostro e senso di colpa; dall’altro Martin, giornalista politico di mezza età, ateo, cinico e disilluso che si propone di scrivere un articolo sull’incredibile storia della donna e così facendo di darle una mano alla ricerca del figlio perduto. Da qui il viaggio che li porterà a Washington e poi nuovamente in Irlanda e che permetterà loro di conoscersi, scontrarsi e, alla fine, avvicinarsi alle posizioni dell’altro.

Un po’ come in The Queen (premiato per la migliore sceneggiatura e la migliore interpretazione femminile qui a Venezia nel 2006) il cuore della pellicola sembra risiedere proprio nel dialogo costante tra i due personaggi, le piccole schermaglie linguistiche, il percorso conoscitivo. Frears si serve della storia di partenza per portare a galla gravi eventi realmente accaduti e contemporaneamente scavare nel profondo dei suoi caratteri. Oltre il film di denuncia, oltre le partigianerie e le posizioni ideologiche, l’inglese è capace come pochi altri di mantenersi in un equilibrio quasi miracoloso tra commedia e dramma, lacrime e risate, leggerezza e profondità, indignazione e umanità. E di farlo adottando uno sguardo che pur aderendo in modo abbastanza preciso al personaggio di Martin (evidente alter ego del regista) non esclude quello di Philomena, non lo rinchiude in una gabbia ideologica ma anzi lo fa respirare, vivere, vibrare davanti ai nostri occhi curiosi e aperti agli insegnamenti che quest’incontro può far scaturire.

In questo risiede la forza di Philomena, nella sua grazia e dolcezza, nella sua tenacia combattiva che Frears ama filmare rapito dal fascino che questa donna sa emanare, conquistato dal mistero di un personaggio che non gli appartiene. Un mistero da decifrare, come quello della fede e del perdono, al quale Frears consegna Martin e così facendo se stesso, conservando le proprie posizioni (il pubblico uscirà indignato dalla sala) ma non escludendo aprioristicamente quelle di lei. Una lezione di etica dello sguardo e del fare cinema che si inceppa solo sul finale, quando un eccesso retorico tutt’altro che necessario rischia di allontanare gli spettatori più consapevoli.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 06/12/2014

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