Venezia 2013 / Palo Alto

C’è una differenza sostanziale tra film sulle superfici e film superficiale, la stessa che intercorre tra opera sul vuoto e opera vuota. L’esordio di Gia Coppola è lì a dimostrarlo: Palo Alto è l’ennesimo racconto di facciata sull’abisso della gioventù americana contemporanea, sull’assenza di prospettive e motivazioni, su quel senso di mancanza dilagante che pare risucchiare tutto, in un moto concentrico e inevitabile. Ma è allo stesso tempo il film che insegna come ogni eccesso sia destinato alla frattura, come quello stile di vita conduca al vicolo cieco che precede, letteralmente, lo schianto.

D’altronde la generazione degli anni zero, figlia di una cultura digitalizzata che canta la morte della morale, è uno dei soggetti più abusati degli ultimi anni. Per definire Palo Alto è necessario prima passare attraverso Spring Breakers (perché è stato il punto di non ritorno di tutto un filone, dalla teen-comedy più innocua alla riflessione generazionale più inquieta e teorica). Se il film di Korine era un oggetto inclassificabile, tanto disturbante quanto ambiguo, tanto apocalittico quanto funebre, era proprio perché superava lo sguardo dei padri: non ricercava un punto di partenza, una ragione o ancora meglio una causa, perché scopriva che non c’erano più partenze, ragioni o cause, che non tutto poteva essere codificato o intercettato. Rimaneva solo la saturazione esasperante, dilaniante e mortifera del nulla, come in un lungo videoclip che si ritrovava ad affondare nelle sue stesse immagini. L’operazione della Coppola, tratta a sua volta da un romanzo dell’eclettico James Franco, è diametralmente opposta. Non c’è alcun grado zero (come non c’è alcuna generazione zero), non c’è nessun abisso perché tutto appare in fin dei conti controllato, cristallizzato in una sfera di rapporti razionali, di cause ed effetti rassicuranti e conciliatori (anche se, di facciata, il film potrebbe sembrare l’esatto opposto).

Malgrado le apparenze Palo Alto, proponendosi di raccontare l’omicidio della morale nella gioventù contemporanea, si preoccupa prima di rintracciare il movente di quell’assassinio (perché crede ancora, schematicamente, che possa esistere un movente). I giovani protagonisti di Palo Alto sono figli di uno sguardo adulto, che li osserva da un’altra parte, in una miscela di tenerezza, moralismo e ruffianeria che alle lunghe risulta indigesta. Lo stesso uso programmatico della musica sta lì a testimoniarlo: adesione a un codice modaiolo che vorrebbe essere contrappuntistico e postmoderno, ma diviene completamente artificiale, fuori luogo e, ancora una volta, moralistico. E così avviene per ogni personaggio, troppo impegnato a essere quella miscela di cliché e gioventù bruciata per mantenere un’ipotesi ,seppur lontana, di rabbia o autenticità (ma anche troppo poco coraggioso per essere inautentico): lontano dal nulla nichilista di cui si vorrebbe far portatore, Palo Alto è un film che non ha nulla da dire.

Ecco allora il ragazzo ribelle che dipinge e riscopre l’amore, i festini a base d’alcool, la ragazza che s’innamora del suo allenatore calcistico, il genitore gay che fuma erba e così via. Un immaginario tanto abusato quanto superato, così inattuale nel suo tentativo di essere a passo con i tempi. Eppure nell’epoca degli spring breakers, dove i pompini sono virtuali, c’è chi è rimasto indietro di dieci anni e sfreccia con l’automobile su una strada contromano, dimentico che il cinema è linguaggio e che la sua è solo un’ennesima, conservatrice vetrina.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 06/12/2014

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