Venezia 2013 / Moebius

L'intero corpo come dispositivo erogeno nel taglio proibito di Kim Ki-duk.

Come abbiamo già ampiamente sottolineato nel corso di questo dossier, Arirang e, in maniera ancora più sorprendente, Amen, hanno segnato la svolta fondamentale nella carriera di Kim Ki-duk. Dopo il naufragio in un cinema-confessionale, Kim ha finito per annullare se stesso: abbiamo assistito a un’ideale morte in diretta di tutti i suoi film precedenti, all’omicidio digitale di un demone ormai deflagrato. Dopo la parentesi di Pietà, film in cui Kim si specchia ma non si riconosce più, arriva finalmente Moebius.

Qui non c’è il tentativo di riedificare un immaginario perduto ma, al contrario, si delinea la prospettiva di un nuovo processo, quello che vuole già infrangere il cinema ritrovato (o almeno tentato) di Pietà per operare al suo interno un radicale svuotamento. Nell’atto stesso di spogliare il dispositivo filmico, di svilire corpi, inquadrature e narrazioni, Kim ritorna a percepire un dolore autentico, non più mediato da alcuna eleganza formale, ma genuino ed estremo, tanto da risultare inaccettabile (se non ridicolo) agli occhi del buongusto comune.

Moebius ha il coraggio di presentarsi, dalla prima all’ultima inquadratura, come un film piccolo, spiacevole e indipendente, filmato quasi completamente in interni, tutto proteso a raccontare una storia in fin dei conti semplice, dichiaratamente edipica. Un film estremo? Forse, ma al contempo capace di ridere di sé come Kim non ha mai fatto, instaurando autentiche, orride gag, come gorgheggi e variazioni sul tema di una boutade fuori-misura. Più che un\'istanza provocatoria, emerge la trasparenza di chi ha lasciato un film in preda alle viscere e al cuore, al sangue e allo sperma, alle fantasie goliardiche di un horror demenziale. Del resto, nella sua povertà di mezzi, Kim torna alla leggerezza di un cinema sorretto principalmente da due fattori: lo sguardo e l’idea.

Lo sguardo. Immagine sporca, scomposta, sgradevole, lontana da ostentazioni formali o pericolose derive manieristiche. Ci si ritrova nel paradosso di un film urlato nella pressoché totale assenza di dialoghi. Ne risulta un’opera rarefatta, che sa essere lirica e assieme esilarante, sospesa e carnale. Qui i corpi si muovono in uno spazio che si rivela poi sempre uguale. Lontano da qualsiasi via di fuga, Moebius è figlio illegittimo di Arirang e di Amen, con cui condivide l’essenza di un’immagine che rifiuta incondizionatamente la posa. Emerge un film tremendo e bellissimo dove filmare significa continuare a combattere contro i propri spettri, uccidendosi e rinascendo a ogni inquadratura. Moebius è puro espressionismo digitale, tragedia greca fusa con routine pornografica. Nella bassa definizione che esalta la vita c’è il primo piano di un volto: ipotesi di un orgasmo che per un istante, un istante solo, riconcilia la triade familiare.

L’idea. La famiglia disfunzionale dove la madre, gelosa del marito che la tradisce, finisce per evirare il figlio. Ecco così la grottesca fenomenologia di un maschio in sfacelo, privato del suo stesso organo riproduttivo. In questo contesto ritorna, sbalorditivamente, l’orgasmo: in assenza del pene il corpo intero si fa organismo genitale: tutto è erogeno. Ritorna, nella sua integralità, la sadiana convergenza tra piacere e dolore. Infliggendosi ferite nel corpo, strofinandosi una pietra sulla pelle, penetrandosi con la lama affilata di un coltello che si muove sotto la cute (atto di masturbazione estrema): provato il coito si sprofonda in un mare di dolore. Godere è soffrire, vivere è poi morire. E se un trapianto del pene sarà possibile, l’istinto si libererà di ogni convenzione sociale: corpo non più violato dalla lama, ma succube di desideri incestuosi (con l’anelito inconfessabile di ritornare a quel punto massimo di piacere, quello in cui si urla dal dolore, quello in cui si è a un punto dal morire, un po’ come il Kakihara di Ichi the Killer di Miike).

Lo sguardo e l’idea dunque. Ma soprattutto lo sguardo è l’idea.

Moebius è, in definitiva, il film che inscena l’atto stesso del taglio, ponendolo come matrice fondante di un nuovo appetito, di una nuova concezione del corpo e delle sue infinite possibilità erogene. E in questo taglio si riscopre una nuova vi(t)a che coincide esattamente con la dimensione rimossa del sacro. Nel punto di contatto tra piacere e dolore, tra la lama e la pelle, si riscopre un diritto proibito, una violenza insieme dolce e primordiale: quel diritto è l’unica possibile declinazione di un erotismo spirituale, di un desiderio che non può essere censurato (e che, per ironia di sorte, è stato violato in Corea, dove il film è uscito tagliato di tre minuti).

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 05/12/2014

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