Venezia 2013 / L’intrepido

In questi giorni la parola “coraggio” è stata usata di frequente per descrivere la selezione e il contenuto di alcuni dei film arrivati al Lido. Barbera ha parlato di coraggio riguardo all’immissione in concorso di The Unknown Known di Errol Morris in quanto documentario, che invece si è rivelato un lavoro sorprendentemente vacuo e ambiguo, assolutamente mancato (quando invece At Berkeley di Frederick Wiseman, ovviamente in formissima, è lì a paludare nel Fuori Concorso, escluso probabilmente per le sue quattro ore di durata). Altrettanto coraggiosa doveva essere la proiezione di Miss Violence, che di estremo ha svelato solo la sua morale deprecabile, tanto nella costruzione formale quanto nel nichilismo ideologico che vi soggiace. Per quanto ci riguarda quella parola la vogliamo usare per descrivere L’intrepido di Gianni Amelio, non tanto perché lo reputiamo (e lo facciamo) un film riuscito e onesto nonostante alcuni passi falsi, ma perché non possiamo che sposare gli intenti di un cinema che cerca di affrontare il tema chiave della contemporaneità (l’unico da cui discende tutto il resto, il lavoro) senza indossare gli edulcoranti abiti della commedia (e dei giochi di coppie e battute sui trans e faccette buffe e macchiette che hanno letteralmente dominato l’ultima stagione del cinema italiano) per lavorare invece su due registri apparentemente opposti e difficilmente connettibili tra loro, la favola e il dramma sociale, e raccontare così le conseguenze del precariato e l’ansia in cui vivono le nuove generazioni.

Accolto al Lido con freddezza, se non autentico e immeritato sdegno, L’intrepido sfiora effettivamente alcuni binari morti, come l’improvvisa trasferta in Albania o l’accenno al tema della pedofilia, mentre nelle traiettorie così esatte dei personaggi si avverte uno schematismo di fondo. Tuttavia si tratta di incertezze che non danneggiano il risultato complessivo del film, comunque impegnato ad evitare lo sfruttamento del dolore o la lacrima facile anche nelle situazioni più rischiose, come la scena delle rose al ristorante. A dominare costantemente il film è un bravissimo Antonio Albanese, che abbandona brillantezza e toni beffardi per lavorare ammirevolmente sotto le righe, riuscendo a reggere un personaggio difficile nel suo oscillare tra riferimenti meta-cinematografici e dinamiche esemplari, anticipate da quel suo programmatico cognome, Antonio Pane. Il suo personaggio è infatti il prodotto più puro e perversamente perfetto del precariato, il lavoratore ad ore, chiamato a sostituire forza lavoro assente in una pescheria o un cantiere, su un tram o al ristorante, pagato in nero e pronto a sparire in silenzio quando la sua presenza non è più richiesta. A salvarlo dalla disperazione e dall’alienazione che tale prassi porta con sé è la sua umanità charlottiana, innocenza e dolcezza di sguardo ben lontane da ingenuità o buonismo. Antonio Pane è il cittadino che crede nella dignità del lavoro, qualunque lavoro, e per questo così lontano dal Padrone, che Amelio ben tratteggia nella doppia figura di un viscido caporale affetto dalla gotta o nell’altrettanto immorale imprenditore in giacca e cravatta e smercio illegale di protesi nel taschino. Del resto non è a loro che sono rivolti gli sforzi di Antonio bensì alle nuove generazioni.

Si fosse chiuso qualche attimo prima, saltando l’ultima inquadratura su Albanese, tutto sommato ridondante, L’intrepido avrebbe avuto un finale bellissimo, con Ivo, il figlio di Antonio, intento a suonare ad un concerto dopo essersi ripreso da un attacco di panico grazie all’intervento del padre. Perché è difficile esprimere e capire le proprie paure, razionalizzarle senza farle covare dentro, senza precipitarle nei recessi di un pozzo dal quale fuoriusciranno poi trasfigurate in attacchi d’ansia e altre somatizzazioni fisiche. E’ difficile oggi non ammalarsi d’ansia se si insegue il sogno di un determinato lavoro, che sia il giornalista, il musicista, il critico cinematografico. Convivere con lo spettro di un precariato assoluto, atomizzante, dal cui confronto si può uscire anche spezzati e sconfitti. Considerate le sorti dei due giovani protagonisti del film, L’intrepido non tratteggia certo una situazione idilliaca ma a tale rappresentazione cupa, magari didascalica ma comunque realistica (e chi non ci crede o è un privilegiato o vive con la testa sotto la sabbia) Amelio fa seguire un flebile raggio di speranza, mostrando di non auto-compiacersi dello stato di crisi rappresentato. L’intrepido è tutto tranne un cupo film ricattatorio o soprattutto nichilista; la sua parabola anzi si chiude proprio sull’apertura e il movimento, sulla ripresa a cui si può arrivare uscendo dalla paura.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 05/12/2014

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