Venezia 2013 / La moglie del poliziotto (Die Frau des Polizisten)

59 frammenti di una cronologia del caso.

Con La moglie del poliziotto (Die Frau des Polizisten) il tedesco Philip Groning porta in concorso la disgregazione di un piccolo nucleo familiare composto da madre, padre e figlia piccola decostruendo la narrazione fino a scomporla in tanti piccoli capitoli che “resistono” a farsi visione coerente. Spetta al pubblico sbrogliare l’inestricabile matassa di indizi, allusioni, frammenti che vedono succedersi uno dopo l’altro senza alcuna (apparente) logica. Perché l’opera di decostruzione portata avanti dall’autore non si limita alla frammentazione ma interviene soprattutto a livello temporale: chi è quel signore dai capelli bianchi che guarda fisso verso la macchina da presa immerso nel bianco accecante di un inverno innevato? E la volpe che vediamo in almeno tre occasioni, che senso ha nell’economia del film? E poi: chi ha usato violenza contro la moglie? Perché il padre sembra sempre così distante dai suoi cari? A ogni capitolo corrisponde un nuovo interrogativo che va ad aggiungersi ai precedenti, rilanciando certe ambiguità o aprendo nuovi dolorosi scenari che sembrano sempre sul punto di compiersi. Perché niente è come sembra nella nuova, faticosa, opera dell’autore de Il grande silenzio.

Quella famiglia felice che vediamo attraversare il bosco durante la pasqua è tutt’altro che unita: il padre, giovane poliziotto con il volto segnato dalla fatica, è frustrato dal lavoro monotono e alienante che si ripete più o meno sempre uguale, e sfoga le proprie frustrazioni contro la dolce compagna, a sua volta inerme nei confronti del marito, che evidentemente ama. Ma per quanto ancora potrà sopportarne le ripetute angherie? Quando si compirà l’inevitabile tragedia? Groning si prende il suo tempo, gioca con lo spettatore come un gatto con la sua preda, lo ammalia con immagini dall’intermittente bellezza digitale, lo inquieta, con visioni notturne di intollerabile violenza nei confronti di animali selvatici, lo disorienta, con scelte estetiche bizzarre (alcuni episodi si limitano a primissimi piani che accarezzano i corpi dei personaggi) e con passaggi narrativi oscuri (il bosco della prima inquadratura, l’anziano che mangia da solo, la festa del paese, ecc..), lo infastidisce, con i cartelli dei capitoli che aprono e chiudono ogni porzione e che producono un’inevitabile distacco dalla narrazione. Eppure, con il passare dei minuti, quella freddezza e quella distanza che nelle prime battute lascia sconcertati si trasforma in una sorta di gioco interattivo nel quale chi guarda è chiamato a farsi costruttore del senso del film, unico depositario di una verità che, esclusi alcuni passaggi, risulterà inevitabilmente soggettiva e destinata ad essere soltanto ipotetica.

Perché, nonostante il nostro incipit, qui non siamo in Austria e Groning non è Haneke: a lui non interessa costruire un percorso a tesi né tantomeno mettere in scena un giallo dalla complessa risoluzione logica. Se di giallo si può parlare lo si fa a partire dalla sottile e direi paradossale suspense che il regista sa innescare svelando(si) poco per volta il marcio e la violenza che si nasconde dietro le rassicuranti mura domestiche. Con il procedere del film lo spettatore è infatti attirato nella “trappola” che il regista mette in piedi attraverso lo svelamento parsimonioso delle informazioni, come se si trattasse di un’indagine di polizia nella quale bisogna lentamente mettere insieme i pezzi di un puzzle particolarmente complicato. Talmente tanto complicato da risultare alla fine quasi indecifrabile. Perché, al di là di tutto, l’intento principale sembra essere quello di raccontare tutta la complessità delle relazioni umane (come ad esempio il rapporto di dipendenza e sottomissione che si instaura tra moglie e marito, o quello, intenso e profondo tra madre e figlia) filtrate dallo sguardo ora curioso, ora triste, ora stupito della bambina, vera e propria protagonista della pellicola, testimone praticamente impassibile della fine dell’amore tra i suoi genitori. Un motivo, quello dello sguardo, che ritorna con forza nell’ultima, malinconica, inquadratura che sembra invitare lo spettatore a provare, almeno per una volta, compassione nei confronti di un uomo fragile che non ha saputo reggere il peso dell’esistenza.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 06/12/2014

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